Europa

Acqua privata, Bruxelles ci prova

Europarlamento Escluse le realtà sociali dalla Conferenza europea che si chiude oggi. Ma la rete dei cittadini ha raccolto 1,8 milioni di firme per proporre alla Commissione Ue una legge che riconosca le risorse idriche come bene dell’umanità, dunque da escludere dal mercato interno e dai trattati internazionali.

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 24 marzo 2015

Si chiude oggi a Bruxelles la Conferenza europea dell’Acqua. Il Forum italiano dei movimenti e la Rete europea erano ieri in sit in davanti al parlamento per protestare, poiché dalla manifestazione, che riunisce istituzioni e multinazionali, sono state escluse le realtà sociali e l’Ice – European citizens initiative, che nel 2013 ha raccolto oltre 1 milione e 800 mila firme per proporre alla Commissione europea un provvedimento legislativo basato su tre punti: riconoscere l’accesso all’acqua da bere e per i servizi igienici come bene dell’umanità; escluderlo dalle «norme del mercato interno» e dalle liberalizzazioni; sottrarre la materia dai trattati internazionali.

La norma è stata discussa nel parlamento europeo a marzo 2014 e poi è sparita dall’agenda. «La commissione ci ha risposto – racconta Corrado Oddi del Forum italiano – che il principio andava bene ma non toccava all’Ue legiferare in materia di concorrenza e privatizzazioni, a differenza di quanto ci ripetono i governi italiani, e che per i trattati occorreva fare attenzione. Poi però nel Ttip – il Trattato transatlantico sul commercio si parla anche di risorse idriche. L’intenzione della Rete europea è tornare a fare pressione sul parlamento che si è insediato l’anno scorso perché ci dia risposte».

In Italia la vittoria ai referendum del 2011 aveva sancito la volontà di portare l’acqua fuori da logiche di profitto e di mercato ma la resistenza degli enti locali ha aperto la strada alle nuove iniziative del governo Renzi che, di fatto, vanno nella direzione opposta: l’esecutivo infatti sta utilizzando una serie di strumenti per favorire processi di fusione e aggregazione tra aziende che gestiscono i servizi pubblici locali (tra cui anche l’acqua) consegnandoli ai privati, obiettivo perseguito senza mai dichiararlo apertamente. Il taglio di risorse che costantemente soffoca gli enti è l’arma per costringerli ad accettare questo tipo di misure. Il primo passo è stato il piano sulla Spending review che punta al taglio delle società partecipate dagli enti locali, seguendo lo slogan «riduzione da 8mila a mille».

Poi c’è stato il decreto Sblocca Italia: gli articoli dedicati al servizio idrico prevedono la creazione di un gestore unico regionale, se si sceglie di avere degli ambiti territoriali devono corrispondere alle province o città metropolitane. Un meccanismo che non tiene conto dei bacini idrici naturali e, soprattutto, induce le realtà più piccole (e spesso pubbliche) ad essere divorate dalle grandi multiutilities come Acea, Hera, Iren, A2A. «L’esecutivo – prosegue Oddi – punta a creare un oligopolio: Iren in Piemonte, Liguria e nell’area nord dell’Emilia; A2A in Lombardia; Hera nel resto dell’Emilia Romagna, Padova e Trieste; ad Acea il centro Italia con Toscana, Lazio e Campania. Il comune di Bologna e le altre amministrazioni faranno scendere la loro quota in Hera dal 51 al 35%, come voleva il decreto Ronchi abolito dai referendum. Il modello Hera prevede la divisione degli utili come una variabile indipendente, così si accumula un disavanzo che viene coperto dalle bollette o dal sistema creditizio. Già oggi l’indebitamento ha raggiunto un livello non più sostenibile». Il governo però amplierà il loro giro di affari e Cassa depositi e prestiti ha già pronti 500milioni per finanziare le fusioni.

Ad Acea la gestione dell’acqua di gran parte del centro Italia. In Campania la multiutility di Caltagirone ha già un piede nell’area Sarnese-Vesuviana, la legge regionale in discussione potrebbe assegnarli il resto della torta. Il consiglio comunale di Napoli ha approvato la delibera che assegna la gestione all’azienda speciale pubblica Abc per cercare di bloccare l’operazione di occupazione da parte di Acea. La norma regionale però potrebbe mettere le competenze di più di 500 comuni nelle mani di 12 sindaci all’interno del consiglio di indirizzo, da cui però sono escluse le città metropolitane cioè il comune partenopeo e l’Abc.

La legge di stabilità dà un’ulteriore spinta: quanto incassato dagli Enti Locali per la vendita delle quote delle società partecipate può essere speso al di fuori del patto di stabilità. E poi c’è il ddl Madia in discussione al Senato sulla riforma della pubblica amministrazione: «Praticamente è il Job act applicato ai servizi pubblici – spiega Simona Savini del Forum italiano dei movimenti per l’acqua – cioè un decreto con norme generali che dà una delega in bianco al governo per disciplinare una materia fondamentale, sottratta al parlamento. I principi che richiama sono una ulteriore spinta verso le fusioni. Del resto la stessa Confindustria ha più volte detto che sono passati quattro anni dal referendum, è tempo che il governo ci metta mano. Lo stanno facendo».

Intanto che l’esecutivo produce le norme, si è mossa l’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico che ha messo a punto un nuovo metodo tariffario che, di fatto, reinserisce la remunerazione del capitale investito consentendo ai gestori di aumentare i guadagni ma facendo anche salire i costi per gli utenti. Solo nel 2013 le tariffe sono cresciute del 7,4%, negli ultimi 10 anni dell’85%.

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