Sull’acqua, passi indietro da gigante
Beni comuni Il referendum del 2011 ignorato. E sulla legge di iniziativa popolare l’impasse è totale
Beni comuni Il referendum del 2011 ignorato. E sulla legge di iniziativa popolare l’impasse è totale
Negli anni ’80 e ’90 fu di moda parlare dei «costi della politica». Da qui le proposte di snellire il settore pubblico in termini di occupazione e di risorse: ridurre il numero dei parlamentari, tagliare i bilanci dello Stato specie nel campo sociale, ridurre le tasse dirette ed aumentare le tasse indirette (eppure la fiscalità progressiva sul reddito fu una delle principali conquiste sociali e democratiche del ‘900), affidare compiti di controllo e di sanzione tipicamente pubblici ad organismi privati. Una linea tendenziale trasversale dalla destra alla sinistra.
Fra le mistificazioni ideologico-culturali più insidiose brilla la questione dell’acqua pubblica bene-comune. Interessate teorie spiegano che l’affidamento della gestione dei beni e servizi pubblici ai privati aventi fini di lucro non rende privati questi beni e servizi ma si traduce unicamente in una delega a soggetti privati, scelti via gare pubbliche, della gestione di beni e servizi che restano pubblici. Una variante importante di queste teorie è quella detta dei commons, dei beni comuni, secondo la quale il regime proprietario non è una variabile discriminante decisiva. I titolari dei commons possono essere soggetti pubblici o privati, l’essenziale è che la loro gestione risponda alla finalità sociale universale, al servizio del benessere di tutti gli esseri umani.
Contro la legge d’iniziativa popolare sull’acqua pubblica ri-proposta dal M5S ed adottata come una delle politiche chiave del «contratto di governo», gli oppositori sostengono la tesi secondo la quale il 97 per cento della popolazione è servito da società a maggioranza o interamente pubbliche. Un’affermazione fondata su un duplice errore.
Il primo, quello di dissociare il regime proprietario ed il regime gestionale. Il fatto che la proprietà delle acque sia in Italia di proprietà pubblica (demaniale) e che le infrastrutture idriche siano principalmente di proprietà dei Comuni, non rende «pubblica» un’impresa il cui regime societario è quello di società di capitale, o società di capitale misto pubblico e privato, o società per azioni (SpA). Il diritto societario oggi in vigore in Italia, stabilisce l’eccezionalità della società pubblica azienda speciale, ammettendo solo le tre forme di società sopra menzionate. I privatizzatori hanno preteso che una SpA, se in house , deve essere assimilata ad una gestione pubblica. Questo è possibile solo se essa rispetta i tre criteri imposti dalla Corte di giustizia europea: essere sottomessa al controllo analogo da parte dei poteri pubblici, le sue attività riguardano esclusivamente il servizio idrico integrato, il campo di azione è strettamente limitato al territorio di competenza delle autorità pubbliche corrispondenti.
Questo esclude le imprese multiutilities che hanno invaso il settore dell’acqua anche in Italia e, fra esse, le SpA quotate in borsa quali Acea, Hera, Iren, A2a, Smat. Famose per essere diventate da noi «i padroni» dell’acqua.
Il secondo errore è di non tenere in considerazione l’obiettivo di realizzare degli utili finanziari grazie ad un prezzo dell’acqua fissato in maniera tale che il finanziamento dei costi d’investimento e di esercizio non siano più a carico dello Stato via la fiscalità pubblica, ma a carico degli utenti/consumatori, come accade per tutti gli altri beni e servizi in passato pubblici quali la casa, i trasporti, la salute, l’educazione, l’elettricità… .
Dov’è il carattere pubblico del bene e del servizio acqua quando oramai sono le logiche del profitto a dominare le strategie produttive e finanziarie dell’impresa sulle quali gli enti locali azionisti non hanno nessuna presa anche perché nella grande maggioranza aderiscono alle strategie degli azionisti privati?
La legge d’iniziativa popolare del M5S è in una impasse totale. Sul piano etico-civile, di fronte all’attacco frontale della Lega contro la legge i pentastellati si sono piegati alla scelta di scongiurare la crisi di governo. La Lega ha accettato l’introduzione dell’acqua pubblica nel contratto di governo sapendo che l’avrebbe bocciata nel corso dell’iter legislativo.
Il Pd, pur di far cadere il governo, ha praticato l’ipocrisia dopo aver spinto, negli ultimi 15 anni, sulla totale privatizzazione dei servizi pubblici locali e nazionali. Bisognerà continuare a battersi affinché la volontà dei 27 milioni di italiani sia rispettata. Nel 2011 non si sono sbagliati. Per il momento sono stati battuti dall’indecenza dei poteri dominanti.
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