«Acqua e cellulari, un altro stile di vita»
Intervista Gael Giraud, economista, matematico e teologo gesuita che ha appena pubblicato un libro scritto con Carlo Petrini (Slow Food)
Intervista Gael Giraud, economista, matematico e teologo gesuita che ha appena pubblicato un libro scritto con Carlo Petrini (Slow Food)
Quando ciascuno di noi ha scoperto per la prima volta l’Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, ha pensato: Ecco un simbolo dell’umanità! Ma, questo simbolo non può in alcun modo rappresentare l’umanità. Noi non siamo estranei rispetto alla natura né dobbiamo dominarla con la scienza. Al contrario: uno dei cinque bicchieri d’acqua che bevo in un giorno proviene dall’acqua evaporata dalle grandi foreste dell’Amazzonia. Quindi io sono l’Amazzonia e l’Amazzonia è in me. Ma finché confonderemo questo disegno con un simbolo dell’umanità, tollereremo la distruzione della natura, quando in realtà la distruzione della natura significa la nostra stessa distruzione». Inizia così la nostra intervista a Gael Giraud, 53 anni, economista, matematico e teologo, gesuita, esperto in questioni ambientali, fondatore del Programma per la giustizia ambientale della Georgetown University di Washington, professore nella McCourt School of Public policy, e membro del Centro di economia della Sorbona. Giraud, insieme a Carlo Petrini, ha da poco dato alle stampe il libro Il gusto di cambiare. La transizione ecologica come via per la felicità (Slow Food Editore-Libreria Editrice Vaticana). Un dialogo a tutto campo tra i due sulla necessità di un cambio di paradigma culturale, sociale, economico per far sì che il pianeta abbia un futuro e l’esistenza di ciascuno diventi umanamente più ricco.
Giraud, nel libro cita alcuni esempi che rendono l’idea dell’urgenza di attuare un cambiamento nelle pratiche economiche per salvaguardare la Terra. Uno su tutti che dovrebbe bastare per farci scendere in piazza?
La mancanza di acqua potabile. Secondo il World Resources Institute, la perdita di acqua potabile in Italia nel 2040 sarà almeno del 40 per cento e potrebbe raggiungere l’80 per cento. Se non facciamo nulla, tra qualche anno, molte città in Italia, Spagna, Portogallo e Francia saranno prive di acqua potabile a partire dalla primavera. Possiamo sopravvivere senza acqua? No. Nei Paesi del Sud sarà peggio molto prima: a livello mondiale, due persone su cinque non avranno accesso all’acqua potabile entro il 2030. E il 2030 è domani! Questo incubo è una buona notizia per alcuni imprenditori senza scrupoli: sperano di poter privatizzare l’acqua. In Francia è già in atto un conflitto tra le grandi aziende agroalimentari, sostenute dal governo, che stanno prosciugando le falde acquifere e minacciano l’accesso all’acqua dei francesi nelle piccole città. Inizialmente ci venderanno acqua in bottiglia in estate, che ovviamente sarà molto costosa.
Poi, per la maggior parte delle persone che non potranno pagare bottiglie d’acqua, la cisterna verrà ogni 2-3 giorni. È questo il futuro che vogliamo? Le comunità energetiche italiane dimostrano che, contrariamente alla vulgata sull’individualismo degli occidentali, siamo perfettamente in grado di organizzarci per trattare una risorsa come l’energia come un bene comune. Dovremmo fare lo stesso per l’acqua. Stefano Rodotà (scomparso nel 2017, ndr) non è riuscito a inserire l’acqua come bene comune nella Costituzione italiana. Io ho fallito in Francia. Ma la Slovenia ce l’ha fatta, insieme ad altri 15 paesi nel mondo. Dobbiamo, fin da adesso, prepararci a un mondo nel quale l’acqua varrà oro e impedire il disastro della privatizzazione dell’acqua.
Oggi lo star bene di un popolo si misura con il Pil. Se ha il segno positivo c’è crescita e lavoro. È d’accordo?
Dall’inizio degli anni Novanta non esiste più una chiara correlazione tra crescita del Pil e occupazione. Si assiste regolarmente alle cosiddette jobless recovery, una ripresa della crescita senza occupazione dopo una crisi. Ciò è dovuto in parte al fatto che il Pil stesso è finanziarizzato, contrariamente a quanto si insegna nella contabilità nazionale. Si gonfia artificialmente grazie alla finanza, senza creare posti di lavoro. Allo stesso tempo, le nostre statistiche sottovalutano completamente la disoccupazione: partono dal presupposto che chi lavora a tempo parziale abbia scelto di non lavorare a tempo pieno e debba quindi essere conteggiato alla stregua di chi lavora a tempo pieno.
La disoccupazione equivalente al tempo pieno è del 30 per cento in Francia e negli Stati Uniti, del 25 per cento in Germania. Suppongo che sia molto alta anche in Italia. In altre parole, la disoccupazione si nasconde dietro a lavori part-time poco retribuiti. Quanto al Pil, è un pessimo indicatore del nostro benessere. Nel 2014, l’Ocse ha anche proposto di introdurre la prostituzione nel calcolo del Pil per gonfiarlo ulteriormente in modo artificiale. Non abbiamo bisogno di questo feticcio che è il Pil. Abbiamo bisogno di indicatori della qualità dell’istruzione, del livello di salute della popolazione, della quantità di lavori che ci fanno soffrire – circa il 30% in Occidente secondo David Graeber – e altri ancora. Questi indicatori alternativi esistono.
Lei sostiene che «dobbiamo smetterla di dipendere dai dispositivi elettronici che consumano energia, che hanno bisogno di minerali, che non possono essere riciclati per la loro realizzazione e che sono usa e getta». Pensa che le persone siano disponibili a tornare indietro o a non comprare l’ultimo modello di cellulare?
La pandemia ci ha dimostrato che siamo in grado di cambiare completamente il nostro stile di vita in pochi giorni. Certo, per le nuove generazioni sarà difficile disintossicarsi dai social media e dal 5G. Per la mia generazione sarà un po’ più facile perché abbiamo conosciuto un mondo senza smartphone e internet. Ma sarebbe una buona notizia. I nostri smartphone sono più potenti dei computer che la Nasa aveva nel 1969 quando il primo uomo ha camminato sulla luna. Non abbiamo bisogno di una tale potenza per chiamare la nonna ogni sera. I minerali che alimentano queste piccole meraviglie tecnologiche non sono disponibili in quantità infinite e quasi nessuno di essi è disponibile in Europa. È da notare che una società basata sulle energie rinnovabili ha un maggiore bisogno di minerali che una società basata sul petrolio.
Mi sembra chiaro che, tra qualche decennio, la maggior parte degli europei non avrà più accesso a questi gioielli elettronici. Man mano che questi minerali diventeranno sempre più rari e che ne avremo bisogno per le infrastrutture «verdi» legate alle energie rinnovabili, gli smartphone, i computer portatili e tutti i piccoli gioielli elettronici che popolano le nostre vite diventeranno sempre più costosi, e quindi inaccessibili in Europa. Dobbiamo riservare queste tecnologie agli ospedali e ai servizi medici, alla ricerca e all’esercito. Per il resto, dobbiamo inventare l’industria del XXI secolo, che non ha nulla a che vedere con l’immaginario californiano: un’industria che risparmia acqua e minerali, e produce manufatti di qualità.
Perché dobbiamo buttare via il computer ogni 5 anni? L’obsolescenza programmata è incompatibile con la transizione ecologica. Prodotti semplici, facili da riparare e da riciclare. La grande tradizione industriale del Nord Italia dovrebbe consentire di inventare questa nuova industria in Europa. Creerà molti posti di lavoro verdi. Nel mio rapporto 2% per 2 gradi, scritto con l’Institut Rousseau, in Francia, abbiamo dimostrato che la transizione energetica creerebbe 500 mila posti di lavoro entro il 2050, anche tenendo conto dei posti di lavoro «fossili» che saranno eliminati. Davvero una buona notizia!».
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