Achille Funi, gli dei imperturbabili dell’operaio sognatore
Ferrara, Palazzo dei Diamanti Fu tante cose senza esserlo interamente: un risoluto accademico, un futurista, un cézanniano... Divenne se stesso negli anni trenta: classicismo materiato del mito, fondato sul mestiere
Ferrara, Palazzo dei Diamanti Fu tante cose senza esserlo interamente: un risoluto accademico, un futurista, un cézanniano... Divenne se stesso negli anni trenta: classicismo materiato del mito, fondato sul mestiere
Si può finire con l’essere originali a forza d’imitazioni. Questo fu il caso dello scrittore irlandese George Moore e fu un po’ anche quello di Achille Funi, la cui personalità emerse lentamente, passando attraverso molte fasi, nel corso delle quali egli guadagnava un pezzetto di sé, e, come un Wilhelm Meister, finiva sempre per trovare qualcosa che era già latente nella sua personalità artistica. Queste considerazioni andavo facendo nell’attraversare le stanze del Palazzo dei Diamanti, assecondato dall’andamento analitico e cronologico dell’esposizione che, a cura di Nicoletta Colombo, Serena Redaelli e Chiara Vorrasi, ha dedicato ad Achille Funi. Un maestro del Novecento tra storia e mito.
Funi fu tante cose senza esserlo interamente: un risoluto accademico, un futurista, un cézanniano e mi fermo qui ché già basterebbe. Tutte queste esperienze furono esercizi – non tutti egualmente convincenti – verso una meta che era quella della forma inconcussa, stabile, perfetta. Ciò che Pater scrisse una volta – peccando deliziosamente, ma pur sempre peccando, di licenza immaginifica – della Gioconda, ovvero che era più antica delle rocce tra le quali sedeva, potrebbe ripetersi delle creature di Funi del suo periodo più bello, quello degli anni trenta, solide, assorte e indifferenti, che sembrano materiate del mito, fatte di una sostanza stabile e incorrotta, come le pietre e le leggende che raffigurano.
Ma vi arrivò lentamente, seppur con coerenza, giacché fin dalle sue prime prove, fra le quali osserviamo alcuni autoritratti composti tra il 1905 e il 1910, d’ineccepibile impostazione di studio, troviamo un’attenzione per il disegno e per le forme plastiche, sode, determinate: un riflesso del suo carattere, dicevano gli amici, di artigiano serio, onesto, metodico, l’esatta antitesi dell’artista d’avanguardia fumiste e irriverente. Calma, ordine, impegno erano infatti i suoi motti; e soprattutto: lavoro, come confessò una volta, dicendo che da ragazzo la passione del mestiere lo teneva digiuno per la determinazione a rifare, cambiare, ridisegnare.
I dipinti di questi anni sono dunque in linea con uno stile di tradizione, con qualche cosa di vagamente secessionista. È studente a Brera, adesso, allievo di Cesare Tallone. Seguono anni turbinosi. Conosce Carrà, Russolo, Boccioni: «da principio – scrive – li disprezzai, poi preso del loro ardore e della loro fede cominciai ad ammirarli e anche un po’ (bisogna sempre dire la verità) a seguirli». Ma non li seguì completamente, sebbene partecipasse alla Grande Esposizione Nazionale Futurista del 1919. Il principio del futurismo era il movimento, Funi avrebbe finito con l’essere magato dall’opposto: la granitica imperturbabilità del mito. Preferì perciò volgersi al cubofuturismo, a Léger soprattutto, come osserviamo in alcuni di questi quadri, Ragazza al balcone (1911) o Dalla finestra (1914); e, anzi, in altre sue cose, disegnate durante la Grande Guerra alla quale partecipò come volontario, Notizie da casa (1916) o Soldato su un muretto (1916), per esempio, ci sembra di intravedere un impulso ancora più classico, anzi più arcaico: il gusto, come si diceva allora, dei primitivi.
Ma in tutte queste influenze, alla quale si deve aggiunge, più forte delle altre, la maniera di Cézanne (Paesaggio ligure, 1920), si sente un interesse uguale, come un motivo esposto in diverse variazioni, ma sempre riconoscibile, per la comunicatività plastica e l’energia, l’incisività del tratto, sebbene sempre con quella «incertezza di indirizzo, metodo e finalità» che aveva notato in lui un pittore e amico, Carlo Carrà. E ciò può ancora dirsi d’altri modelli che lo avrebbero avvicinato al suo stile più personale e autentico: i levigati giganti, spigolosi e trasognati, del Picasso neoclassico, come in Adone (1931), e gli interni metafisici di Strumenti musicali e sedia (1921).
Pittore pieno e originale Funi lo divenne soltanto a partire dagli anni trenta. Lì qualcosa successe: i vari elementi di un’educazione eteroclita andarono maturando e amalgamandosi in una visione compiuta: presero allora corpo quelle immagini d’una classicità fiabesca, smagata e lontana, un Poussin da Mille e una notte, di miti e leggende, di titani trasognati e distratti su un paesaggio di serene rovine. V’erano stati prima, è vero, certi ritratti, come quelli della sorella con quei lunghi capelli ramati e gli occhi assorti e malinconici, La sorella Margherita con brocca di coccio (1920), La terra (1921), Testa femminile (1922): un ripetersi di volti cerei, come di paraffina, soffusi di ambiguità leonardesca, tra vassoi di frutta che paiono di Martorana, opere alle quali non si potrebbe negare il titolo d’unicità. Ma le cose migliori di Funi sono quelle che gli valsero la definizione di De Chirico «operaio sognatore»: Riposo di Apollo dei primi anni trenta, Tema mitologico (1939), Plubio Orazio uccide la sorella (1932), Venere latina (1930, quest’ultima non presente a Ferrara, bensì nella recente, piccola mostra presentata dalla Laocoon Gallery di Londra nella Galleria Mirco Cattai a Milano).
Funi era preso da una propria pazzia, dice De Chirico: il costante anelito alla bellezza, congiunto a un che di platonico, di ermafroditico. E in effetti questi dei assenti, prima di tutto a se stessi, che non hanno nemmeno l’ombra del rancore mostrato dalla Venere d’Ille nel racconto di Mérimée, sono sospesi in un mondo senza dramma, statici e contemplativi, quasi non sapessero quale uso fare della loro immensa forza. Qualcosa di vago si muove in loro, forse di estetizzante, nulla di più deciso di quello che può contenersi nelle parole dannunziane «Tragedie Sogni e Misteri». «La principesca corte dei duchi d’Este, con il Tasso e l’Ariosto, ma ancora di più la forza di Roma e di Atene antica, lo coinvolsero fino al punto di legarlo a questo mondo perché quello attuale non gli diceva più niente» si legge in una delle testimonianze riportate nel catalogo, mentre in un’altra Piero Torriano insiste sul senso di distacco delle figure dell’artista: «una impassibile compostezza sopra cui sembra gravare non so che enigmatico silenzio». Nelle pitture murali, di cui possiamo ammirare i cartoni preparatori, la sua maniera non cambiò. Un’aria onirica e stupefatta preservò i personaggi rappresentati dalla monumentalità retorica alla quale, alle volte, sembrano pur cedere. Gran bontà de’ cavallieri antiqui, gran bontà degli antichi pittori. Funi rimase così: fedele al mito, fedele alla vecchia pittura, laboriosa, metodica e artigianale, fino alla morte che lo colse il 26 luglio 1972.
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