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Accoppiata Paolo VI-Romero, «È una felice coincidenza»

Accoppiata Paolo VI-Romero, «È una felice coincidenza»Un’immagine di monsignor Romero in marcia a San Salvador – Afp

Intervista a Sergio Tanzarella Lo storico della Chiesa spiega i motivi di una scelta che divide i cattolici

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 14 ottobre 2018

Sette in tutto. Fra loro Paolo VI, il papa del Concilio Vaticano II e dell’enciclica Populorum progressio sullo sviluppo e la liberazione dei popoli oppressi, ma anche della Humanae vitae e della frattura con il «dissenso cattolico». E monsignor Oscar Romero, il «vescovo fatto popolo», ucciso nel 1980 da un sicario degli squadroni della morte nel Salvador della dittatura militare.

Se sulla «santità» del martire Romero si hanno pochi dubbi (già santo per il suo popolo da quarant’anni, il Vaticano ci ha messo di più, dovendo vincere le resistenze di chi lo etichettava, come fosse un peccato mortale, «vescovo rosso»), la figura di Paolo VI è più controversa. Per il movimento internazionale di riforma Noi siamo chiesa, la sua canonizzazione è un «errore». E resta la forte critica sulla corsa a proclamare santi i papi, con il chiaro intento di rafforzare e santificare il papato stesso: di fatto tutti quelli del ‘900, tranne gli “impresentabili” Pio XI e Pio XII. E Benedetto XV, troppo eversivo per aver definito la prima guerra mondiale una «inutile strage».

Ne parliamo con Sergio Tanzarella, docente di Storia della Chiesa alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale di Napoli e alla Gregoriana di Roma.

Paolo VI e Romero canonizzati insieme. La scelta rivela la volontà di temperare il radicalismo del vescovo di San Salvador con il moderatismo di papa Montini? Un po’ come avvenne nel 2014, con l’accoppiata Giovanni XXIII-Giovanni Paolo II…

In questo caso mi sembra una felice coincidenza. Fu Paolo VI a scegliere Romero come vescovo e a trasferirlo a San Salvador. Associarli mi pare una conferma del riconoscimento del martirio di Romero, canonizzato insieme al papa che se non fosse morto lo avrebbe certo sostenuto e difeso, come invece non fece Giovanni Paolo II.

Paolo VI ha portato a termine il Concilio Vaticano II ma l’ha anche ricondotto su binari più rassicuranti, dopo la fase di Giovanni XXIII…

L’idea di un Paolo VI che normalizza il Concilio è una leggenda storiograficamente inconsistente. Il Vaticano II parte da una straordinaria intuizione di Giovanni XXIII, dalla sua volontà di vincere le resistenze curiali, dalle linee guida tracciate nel discorso di apertura, Gaudet mater ecclesia. Ma la prima sessione è stata interlocutoria: era impresa troppo nuova e grande perché si sapesse in quei primi mesi dove si sarebbe arrivati. Dopo la morte di Roncalli nulla era detto sulla prosecuzione del Concilio, anzi alcuni lo ritenevano chiuso. Paolo VI lo ha ripreso fermamente, non si è limitato a portarlo a termine ma lo ha condotto nella sua fase più lunga e cruciale fino alla sua conclusione.

Paolo VI ha avuto un rapporto complesso con il mondo cattolico di base, ha preso provvedimenti contro l’abate Franzoni e altri preti e comunità del «dissenso». È stata una scelta di moderatismo (democristiano) contro le istanze radicali che chiedevano la piena attuazione del Concilio? O l’incapacità di gestire una stagione particolarmente effervescente?

Sono stati anni bellissimi e difficilissimi. Il Concilio è arrivato dopo decenni di apparente immobilità, ha messo in moto nella Chiesa processi che erano stati a lungo negati e sottovalutati. Questo ha costituito per Paolo VI una difficoltà enorme. Le durissime contrapposizioni politiche, la guerra fredda, le giustissime rivendicazioni sociali hanno travolto anche la Chiesa e l’hanno posta su un terreno che in parte le era del tutto nuovo. Il caso dell’Isolotto è forse la prova più dolorosa, con il mantenimento a Firenze di un vescovo inadeguato alle esigenze dei tempi e alle istanze di maturità e autonomia del laicato. Tuttavia se si legge la Octogesima adveniens del 1971 si scopre un Paolo VI lungimirante, capace di tradurre l’esperienza del Concilio dinanzi alla varietà delle condizioni del mondo: «Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra missione».

Romero, già santo per i popoli latinoamericani, è riconosciuto anche dalla Chiesa, dopo decenni di freddezza e ostilità. Ci voleva papa Francesco?

La causa è stata sbloccata da Benedetto XVI e portata a compimento da Francesco. Oggi possiamo ribadire, senza possibilità di essere smentiti, che ci sono stati oltre trent’anni di resistenze e calunnie nei confronti di Romero, prima da vivo e poi dopo essere stato ucciso. Un certo episcopato locale e alcuni cardinali curiali hanno cercato di cancellare e ignorare le tracce di sangue del suo martirio, ma hanno miseramente fallito. Tuttavia resistenze e calunnie non si fermano nemmeno davanti alla canonizzazione. Diversi studenti mi dicono che nelle loro diocesi il nome di Romero è ancora “proibito”. E anche a Roma, in un certo alto clero o tra gli intellettuali cattolici, si avverte chiaramente che san Romero martire non entrerà mai nel loro calendario.

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