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Biennale architettura L’Arabia Saudita e la sua tradizione di quarantena

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 10 luglio 2021

L’Arabia Saudita ha una lunga esperienza di segregazione e quarantena, principalmente a causa del pellegrinaggio annuale dei musulmani nella città santa della Mecca. A titolo di esempio, nel 1956 a sud di Jeddah venne inaugurata, dopo cinque anni di lavori, una stazione di quarantena destinata ai pellegrini musulmani in entrata nel Regno: recintata, includeva 150 costruzioni separate l’una dall’altra, collegate al vecchio porto attraverso una strada privata. I sauditi non sono stati i soli ad avere agito con queste modalità. Lungo le coste del Mar Rosso vi sono infatti isole che nei secoli hanno esercitato la funzione di stazioni di quarantena, un progetto possibile grazie alla collaborazione tra i diversi stati.
La quarantena è un tema di grande attualità, in tempo di pandemia di Covid-19, ed è proprio attraverso questa lente – in chiave storica e attuale – che l’Arabia Saudita sta partecipando per la seconda volta alla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia (fino al 21 novembre). Posta ben prima della pandemia di Covid-19 – per rispondere ai cambiamenti climatici, agli spostamenti dei popoli, alle proteste politiche, alle ingiustizie economiche, sociali e razziali – la domanda del direttore della Biennale, l’architetto e studioso libanese Hashim Sarkis, è «How Will We Live Together?»

IL PADIGLIONE saudita è stato realizzato dai giovani architetti Hessa AlBader, Basmah Kaki e Hussam Dakkak di Studio Bound – le cui attività spaziano tra Jeddah, Londra e Kuwait City – e dai curatori Uzma Z. Rizvi (ha seguito la parte antropologica e storica) e Murtaza Vali che fanno base a New York. Il loro lavoro si intitola Accomodations, un termine declinato al plurale per includere modalità diverse di vivere, temporanee e definitive: case e hotel dove riposi e stai, ma anche intesa come quella relazione tra le persone che è stata stravolta dal Covid-19. Tre gli assi attraverso cui si sviluppa l’esposizione saudita: le isole destinate alla quarantena dei viaggiatori, gli hotel come luogo di ospitalità, e le case della penisola araba nella loro evoluzione da abitazioni per famiglie multigenerazionali a una destinazione per famiglie nucleari.
L’esposizione si focalizza sulla separazione durante la quarantena in una prospettiva storica, attraverso intriganti ricerche in venticinque archivi storici situati in Arabia Saudita e in altri Paesi in giro per il mondo. Si spazia quindi dalla quarantena dei viaggiatori nei secoli scorsi fino alla quarantena durante la pandemia di Covid-19. Numerose le fotografie, tra cui quelle scattate nel 1956 nella già citata stazione di quarantena fuori dal porto di Jeddah. L’architetto Hessa AlBader, cittadina del Kuwait, spiega che «l’obiettivo è stimolare una maggiore conoscenza delle tensioni tra le azioni di separazione, insite nella quarantena, e quelle di adattamento, necessarie per continuare a vivere. Su una parete, per esempio, abbiamo affisso vecchie pubblicità di detergenti per la persona e per la casa ». Ne emerge una ricerca interessante tra inclusione ed esclusione.

UNO DI PUNTI di partenza dell’esposizione saudita alla Biennale è il palazzo destinato all’ospitalità dei viaggiatori, fuori Riad, che a causa dello scoppio di un’epidemia di vaiolo a inizio Novecento era stato trasformato in un ospedale finanziato dal sovrano. Ci spostiamo poi in una stanza dove vi sono elementi che riflettono la struttura dell’Hotel Al Yamamah di Riad situato in una via trafficata, dove vi sono molti ministeri. La lobby di questo albergo ha la funzione di un centro culturale, dove si incontrano in modo informale politici e uomini di cultura, anche stranieri. Di fatto, questo hotel è un’estensione dell’apparato statale.
Nel padiglione saudita alla Biennale di Venezia uno spazio è dedicato al Marriott di Riad, riconvertito in ospedale durante la pandemia di Covid-19. «Vi è un rapporto tra ospitalità e ospedale», spiega l’architetto Hessa AlBader: «Nei primi mesi di pandemia i viaggi hanno subito una battuta d’arresto, lasciando vuoti gli alberghi. Quando il fabbisogno di infrastrutture ospedaliere ha superato le capacità della sanità pubblica, in Arabia Saudita gli hotel sono stati trasformati in strutture aggiuntive per la quarantena in cui monitorare i viaggiatori potenzialmente infetti in arrivo, oppure isolare i malati che non potevano essere adeguatamente isolati a casa. Così riconvertiti, gli hotel sono di fatto diventati un’estensione delle infrastrutture mediche pubbliche».

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