Accadeva domani, il tempo ci insegue
Classici argentini Il sassofonista Johnny Carter, ispirato a Charlie Parker, e il critico musicale Bruno sono i protagonisti del racconto lungo «Il persecutore», in cui lo scrittore argentino abbandona il fantastico
Classici argentini Il sassofonista Johnny Carter, ispirato a Charlie Parker, e il critico musicale Bruno sono i protagonisti del racconto lungo «Il persecutore», in cui lo scrittore argentino abbandona il fantastico
Nella vasta galleria dei personaggi di Cortázar molti sono quelli memorabili, ma un posto del tutto particolare lo occupano i protagonisti del romanzo breve El perseguidor, riproposto ai lettori italiani per ben due volte in poco più di un anno, nell’edizione Sur (L’inseguitore, 2016, nuova traduzione di Ilide Carmignani) e con il recupero di quella Einaudi nella bella collana L’arcipelago, Il persecutore (traduzione di Cesco Vian, rivista da Jaime Riera Rehren, pp. 104, euro 11,00).
Il sassofonista Johnny Carter – chiaramente ispirato a Charlie Parker – e il critico musicale Bruno sono i due personaggi intorno a cui si muove il racconto, che nel suo svolgersi si apre però a svariatissime digressioni. Le sue non molte pagine ci offrono infatti una meditazione sulla possibilità di accedere, attraverso l’invenzione artistica, a un livello superiore di conoscenza, che il musicista insegue nelle sue performances con il sax. C’è, poi, un magistrale gioco di specchi in cui le esecuzioni di Johnny si alternano alle descrizioni di Bruno, ma alla fin fine il musicista rimprovererà il suo biografo di non aver saputo trovare le parole giuste per raccontare quella che è stata la sua vita: «Non prendertela, Bruno, non importa se hai dimenticato di scrivere tutto questo. Però, Bruno – e alza un dito che non trema – è di me che ti sei dimenticato».
Infine, Il persecutore è anche un metaracconto che mette in scena la diatriba tra la produzione artistica e la sua lettura critica, che Cortázar vive immedesimandosi in entrambi i personaggi. Tutta questa impalcatura non viene eretta, tuttavia, in una rarefatta atmosfera intellettuale, bensì nel cuore di una vita ai margini, negli alberghi parigini di quart’ordine o nelle case squallide di una New York invernale, e grazie a una lingua che è la grande novità del romanzo, e ne giustifica la riproposta in due nuove versioni dopo più di cinquant’anni dall’esordio italiano.
I primi lettori italiani di Cortázar vennero infatti sedotti dalle incursioni negli inconsueti territori del fantastico dei primi racconti, poi dallo sperimentalismo narrativo di Rayuela, e in generale dalle ambientazioni e dai personaggi, spesso marginali bohémiens, dei quali Johnny Carter è il primo fulminante esempio. Rimase fuori però, da queste prime approssimazioni critiche, qualsiasi considerazione sulla lingua perché i primi traduttori (Flaviarosa Nicoletti Rossini e Cesco Vian) lavorarono su quei testi tendenzialmente elevando il registro linguistico verso una «bella scrittura», ciò che andava esattamente nella direzione opposta a quella perseguita da Cortázar, il quale unisce in questo testo la scelta di abbandonare lo spazio del fantastico a quella di una narrazione in prima persona tramite una lingua che è allo stesso tempo lontana sia da goffe mimesi popolareggianti che da eccessive ricercatezze letterarie. E se Cesco Vian (primo traduttore di El perseguidor, diversamente da quanto dice la quarta di copertina della recente riedizione Einaudi, che la attribuisce a Nicoletti Rossini, un errore sommato a sciatterie degli apparati editoriali davvero imperdonabili) tentava di riprodurre la cadenza colloquiale della voce di Bruno, la sua formazione di letterato e accademico non gli permise quella libertà che era invece l’obiettivo prioritario dello scrittore argentino: la sua traduzione era corretta, anche elegante, ma rivelava sempre una tendenza all’intervento d’autore, alla correzione verso l’alto, sia del lessico che del registro sintattico. Del resto, la lingua letteraria italiana degli anni sessanta (Pasolini a parte) non era ancora pronta ad accogliere la novità profonda del codice linguistico di Cortázar, né di molti altri autori che vennero proposti in quegli anni.
Le nuove traduzioni (si fa fatica a considerare il bel lavoro di Jaime Riera Rehren solo come un «aggiornamento e revisione») si muovono proprio in questa direzione, con risultati importanti. Qui, la lingua del critico musicale Bruno diventa, grazie agli interventi di Riera Rerehn, non solo più scorrevole ma a volte, con cambiamenti anche minimi, riesce ad avvicinarsi all’esperimento dell’autore argentino, che nel 1959 risultava dirompente.
Due esempi: in uno dei serratissimi dialoghi tra i vari personaggi a un certo punto la compagna di Johnny dice: Lo mismo da, espressione dall’effetto colloquiale perché inverte la dizione corretta, ovvero: da lo mismo. Vian la normalizza con un corretto ma anonimo «è lo stesso», mentre i due traduttori odierni la rendono con i più convincenti «Fa lo stesso» (Riera) o «Non importa» (Carmignani), soluzioni tanto più significative in quanto la frase viene ripresa da Johnny una riga sotto per controbattere e avviare una delle sue immaginifiche meditazioni sul tempo.
Un po’ più avanti, è lo stesso sassofonista Johnny a rivolgersi a Bruno dicendogli, mentre giudica il valore del jazz di un altro musicista: Te das una idea, Bruno, che Vian rende con «Ti fai un’idea, Bruno», perdendo di nuovo la trasgressione grammaticale del parlato, che invece riaffiora nel «Renditi conto, Bruno» di Riera, e nel «Tanto per darti un’idea, Bruno» di Carmignani. Quanto al titolo, diverso nelle due edizioni più recenti, Johnny Carter è L’inseguitore nella versione di Sur, mentre quella einaudiana ripropone Il persecutore della prima traduzione (evitando la furbata di molti editori, che cercano di spacciare per nuovi quelli che sono repêchage da catalogo, mascherati da titoli nuovi).
Carmignani ha spiegato in un articolo le ragioni (con le quali non si può che concordare) del cambiamento legato a una maggiore fedeltà al significato originale del termine spagnolo, e lo stesso Riera sembra muoversi verso questa soluzione quando traduce con «insegue» ed «essere inseguito» il verbo perseguir. In questo caso, la scelta non è solo una questione di correttezza lessicale: l’«inseguimento» di qualcosa che si riesce ad afferrare solo per un istante è la ragion d’essere del jazzista, ma anche dello stesso Cortázar, ed è il resoconto di questa impossibilità a dar vita al racconto, e forse a gran parte dell’opera dello scrittore argentino.
Bruno, il biografo, potrà infatti riempire il suo libro con una valanga di aneddoti e di storie, ma il suo sforzo sarà sempre controbilanciato dall’irruzione del mondo onirico di Johnny, dall’assillante ripetizione di «questo l’ho già suonato domani», fulminante distorsione dell’ordine temporale, insomma da una vita che non si farà costringere nella logica della cronologia.
Eppure, è questa prospettiva che riesce a riscattare anche la posizione antagonista del cinico Bruno, per recuperarne il significato originario, e aprire una finestra sulla funzione della scrittura in Cortázar: quel tentativo, sempre sul punto di fallire, di esprimere il sentimento di no estar del todo di cui parlerà in molti dei suoi testi: «Scrivo per assenza, per spostamento, e siccome scrivo da un interstizio, sto sempre invitando gli altri a cercarsi il proprio e a guardare attraverso di esso il giardino dove gli alberi hanno frutti che sono naturalmente pietre preziose. Vivo e scrivo minacciato da questa lateralità, da questo vero parallelismo, da questo essere sempre un po’ più a sinistra o un po’ più in fondo del posto in cui si dovrebbe stare, perché tutto si risolva finalmente in un giorno di vita senza conflitti».
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