Abuso sessuale, quando il dolore si fa politico
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Abuso sessuale, quando il dolore si fa politico

Scaffale «Perché tornavi ogni estate», l’esordio di Belén López Peiró per La Nuova Frontiera. Un memoir sulle violenze subite che imbastisce gli atti del processo a brani che appartengono a voci disparate
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 7 maggio 2022

Perché tornavi ogni estate, l’esordio di Belén López Peiró (pp.135, euro 14,90), uscito per La Nuova Frontiera, racconta la storia di un abuso sessuale, subito da una ragazzina, per anni, in Argentina. Il modo in cui la narrazione è strutturata è forse una delle ragioni per cui questo testo è in corso di traduzione in tutte le principali lingue europee, come recita la quarta di copertina.

NEL LIBRO c’è un’alternanza tra gli atti per imbastire il processo, a partire dalla denuncia della donna, e brani che appartengono a voci disparate: la madre di lei, lei, le zie, le cugine… Questo coro indistinto riesce, meglio di qualsiasi dichiarazione in proposito, a rappresentare quanto la voce di una donna abusata, la sua testimonianza, il suo dolore siano sullo stesso piano delle considerazioni di chi specula, nega, fa pettegolezzi su un evento devastante, che ha distrutto la vita di un’altra: «ogni volta che credo di averci messo un punto, di aver detto tutto quello che volevo dire, in qualche modo rivive. E ogni volta che lo rivivo provo la stessa identica sensazione: non finirà mai. E lotto contro me stessa per liberarmi di ogni immagine, per cercare di porre un freno a quel dolore che torna ogni mattina e mi distrugge».
Chi legge viene posta di fronte a un sistema strutturato per rendere impossibile rintracciare una gerarchia su quale testimonianza o considerazione sia più importante, più degna di essere ascoltata: è tutto sullo stesso piano. In questo modo, l’ingiustizia perpetrata sulle donne che hanno subito un abuso viene perfettamente raccontata. Non si tratta solo della violenza subita, ma anche della colpa che viene loro addossata, dell’emarginazione, della condizione in cui vengono ridotte, nel momento in cui decidono di parlare, per liberarsi, scrive l’autrice, «dalle catene del silenzio».
Nel testo, infatti, attraverso uno stile che assomiglia ai flash di una macchina fotografica, la lettrice viene sorpresa da illuminazioni subitanee, che corrispondono alle parole della donna che ha fatto la denuncia: «chiamarle vittime significa fotterle un’altra volta. E un’altra ancora Le persuadono che sono loro le responsabili e che per questo meritano una simile punizione. Sì, perché prima sono vittime di lui e poi di sé stesse».

ATTRAVERSO BRANI come questo emerge la complessità di una storia nella quale sono implicati una ragazzina che aveva tredici anni, a cui lo zio ha inferto per anni violenza e umiliazione. Sono coinvolte, però, anche la madre che non si è accorta di nulla, la pediatra che non si è interrogata sulle lesioni vaginali della bambina, la zia che sapeva, ma non è intervenuta, l’impossibilità per la ragazzina di sottrarsi a quello che l’uomo le descriveva come il sistema dell’amore: io adulto organizzo a te, che sei sola e dimenticata dai tuoi genitori, una festa di compleanno e per questo è normale che poi la notte vengo nel tuo letto a riscuotere il prezzo delle mie attenzioni.
Tutto questo dolore è distillato attraverso un testo che, da una parte, ha le caratteristiche di un racconto, con le sue protagoniste, e garantisce allora la distanza che contraddistingue l’esperienza narrativa; dall’altra è un atto politico, una sorta di documento sociale, disperante.

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