Internazionale

«Abu Mazen parla e parla, ma noi abbiamo le mani legate»

Palestina La Cisgiordania non crede a Ramallah

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 2 ottobre 2015

Se gli italiani sono tutti commissari tecnici, i palestinesi sono tutti primi ministri. Ognuno ha la sua opinione. Ma solo se si parla di Israele. Basta spostare il discorso sull’Autorità nazionale palestinese, sulla leadership del presidente Abu Mazen e la musica cambia. Si diventa più cauti.

Due giorni fa Abu Mazen ha parlato davanti all’Assemblea generale delle Nazioni unite, annunciando che i palestinesi non si sentono più legati agli accordi con Israele. In Cisgiordania però prevale lo scetticismo sulle intenzioni reali del presidente. Le risposte si assomigliano un po’ tutte: il consenso verso la leadership di Ramallah è ai minimi termini. Lo è all’Università di Betlemme, dove anche membri del movimento studentesco vicino a Fatah criticano il governo, lo è tra la gente del suq, ambulanti, contadini dei villaggi del governatorato. Lo è anche tra chi lavora per l’Anp. Un consenso tanto scarso che in tantissimi non sapevano nemmeno che Abu Mazen avrebbe parlato, due giorni fa, all’Assemblea generale delle Nazioni unite.

«Abu Mazen parla, parla, parla ma non agisce mai – ci spiega S. da un tavolo della caffetteria dell’Università – [Gli israeliani] ci uccidono ogni giorno, ci arrestano ogni giorno. E la leadership? Niente. Il nostro sangue è diventato normalità. La sua è una strategia perdente per noi e vincente per lui: va di pari passo con gli interessi israeliani e statunitensi. Il suo obiettivo è mostrarsi il partner ideale per la pace, l’uomo giusto, così da garantirsi la posizione. Ma non rappresenta nessuno di noi: nemmeno chi lavora per l’Anp lo sostiene. Lo sanno tutti che è un’entità inutile e corrotta, che sta togliendo ogni speranza di cambiamento al popolo palestinese».

La questione la sollevano tutti: a legare le mani ai palestinesi, che alle violenze israeliane e a quelle interne non reagiscono, sono le condizioni economiche. Un neoliberismo selvaggio che ha reso molte famiglie schiave di banche e salari bassi. Alle politiche economiche di Ramallah si aggiunge il pugno di ferro dei servizi segreti e la sicurezza palestinese: arresti, torture in prigione, controllo dei media e dei social network.

«Durante le lezioni qui all’università, molti professori evitano di parlare di politica interna – dice una ragazza, M. – E censurano noi studenti. Io vivo nel campo di Dheisheh: i servizi segreti palestinesi entrano spesso. E ci attaccano, come successo qualche giorno fa durante una manifestazione vicino al muro. Eppure sono nostri fratelli».

Tante critiche, tanta rabbia, specchio di un calo di consenso forte verso Ramallah che non è solo proprio di chi sostiene o simpatizza per fazioni avversarie a Fatah. Il malcontento è forte anche dentro il partito del presidente. Per qualcuno il problema è la mancanza di rappresentatività, come spiega Saher Kheir, del movimento studentesco legato a Fatah: «L’Anp rappresenta solo una minima parte del popolo palestinese, non certo la stragrande maggioranza, chi non ci lavora, i contadini, o chi fa fatica a mettere insieme un salario». E allora, chiediamo, perché non c’è reazione? «Qui funziona come in ogni altra parte del mondo – dice B. A, dietro il suo carretto di mais bollito – L’Anp è fatta da palestinesi. Come lo era l’Olp. L’Anp non arriva da Marte, ma è parte del popolo palestinese, è un suo prodotto. Per cambiarla dobbiamo cambiare la nostra mentalità. Tornare alla cultura politica che soprattutto tra i giovani non esiste più. Siamo stati privati di una visione, teorica e concreta».

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