Disparità di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza a livello locale e regionale; personale medico specializzato insufficiente un po’ ovunque; ginecologi obiettori in aumento; medici non obiettori discriminati nel lavoro. Se non se ne fosse ancora accorto il ministero della Sanità, ci ha pensato il Consiglio d’Europa a ricordare all’Italia che non ha ancora risolto le violazioni rilevate nel 2013 e nel 2015.

Malgrado gli ultimi dati disponibili sull’aborto volontario nel nostro Paese risalgano al 2018, con una relazione governativa presentata in Parlamento solo nel gennaio 2020 – contrariamente a quanto prevede la stessa legge 194/78 che impone al ministero della Sanità di trasmettere il rapporto sull’attuazione delle norme entro il febbraio dell’anno successivo a quello monitorato -, il Comitato della carta sociale europea ha fotografato così la condizione delle donne in Italia.

INOLTRE, PUNTUALIZZA il Comitato (organo del Consiglio d’Europa), «il governo non ha fornito alcuna informazione sul numero o percentuale di domande d’aborto che non hanno potuto essere soddisfatte in un determinato ospedale o regione a causa del numero insufficiente di medici non obiettori». Eppure dai dati relativi al 2018 si evince che il numero di ginecologi obiettori di coscienza continua ad aumentare e che il 5% delle interruzioni di gravidanza sono eseguite in una regione diversa da quella di domicilio della donna.

Motivo per il quale la principale organizzazione europea di difesa dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto ha chiesto al governo italiano di fornire dati recenti sugli aborti clandestini, sul numero di obiettori di coscienza tra i farmacisti e il personale dei centri di pianificazione familiare, e informazioni sull’impatto che tutto ciò ha sull’accesso effettivo all’interruzione di gravidanza.

[object Object]

UNA SITUAZIONE, questa, che è peggiorata durante l’ultimo anno, a causa della pandemia. Anche se, come spiega al manifesto Mirella Parachini, responsabile dell’applicazione della legge 194 nella Asl Roma 1, «il rapporto tra gli aborti chirurgici e quelli farmacologici, che nel 2018 era circa di due terzi a un terzo, oggi si è invertito». Almeno «secondo il mio personale punto di osservazione», tiene a precisare la ginecologa radicale che è tra i fondatori dell’Associazione Luca Coscioni. Ed è proprio questo il punto più dolente: «Il nostro Paese – continua – procede troppo lentamente nell’adeguarsi alle innovazioni scientifiche e mediche in questo campo, mentre in Francia per esempio la pillola abortiva Ru486 è in commercio dal 1988».

PER MIRELLA PARACHINI bisogna dire «grazie al Consiglio d’Europa», ma allo stesso tempo «bisogna smetterla con una certa retorica»: «Basta con la narrazione del Paese bloccato dall’obiezione di coscienza – esorta la storica militante radicale – Per carità, non nego che sia anche così, ma non è tutto: l’Italia è bloccata sotto molti punti di vista. A me colpisce molto di più la lentezza con cui da noi una buona pratica sanitaria fa fatica ad adeguarsi agli standard europei per una pura questione di stigma. Le donne scelgono sempre di più l’aborto farmacologico ma sono ostacolate. E a tutt’oggi assistiamo a tentativi regressivi da parte di presidenti di Regioni come quelli dell’Umbria, delle Marche e dell’Abruzzo». Insomma, dal 1978 ad oggi «ancora nel nostro Paese viene strumentalizzato il tema dell’aborto».

E INVECE CI SAREBBE bisogno, sì, di rivedere la legge 194, ma nell’interesse delle donne che intendano usufruirne: «Una legge che impone alle donne che si vedono costrette a ricorrere all’aborto dopo la dodicesima settimana di andare all’estero per ottenere quel servizio non è una buona legge. Saranno una piccolissima minoranza, ma esistono. Ed è grave: vuol dire che la legge non corrisponde più alla realtà».