Aborto e Coronavirus, il rischio di regredire
L’epidemia da Coronavirus ha imposto una riorganizzazione dei ricoveri e delle visite ospedaliere che ha avuto ricadute importanti su alcuni servizi. In particolare, le donne che devono interrompere una gravidanza […]
L’epidemia da Coronavirus ha imposto una riorganizzazione dei ricoveri e delle visite ospedaliere che ha avuto ricadute importanti su alcuni servizi. In particolare, le donne che devono interrompere una gravidanza […]
L’epidemia da Coronavirus ha imposto una riorganizzazione dei ricoveri e delle visite ospedaliere che ha avuto ricadute importanti su alcuni servizi. In particolare, le donne che devono interrompere una gravidanza stanno incontrando difficoltà crescenti soprattutto in alcune regioni. Sebbene l’Ivg costituisca una urgenza indifferibile, come ricorda lo stesso Ministero della Salute, molti ospedali hanno bloccato il servizio e molti di quelli in cui il servizio è aperto bloccano o limitano le procedure farmacologiche. Perché questo accada è un paradosso tutto italiano. Ma sarebbe evitabile.
In Italia le Ivg, chirurgiche e farmacologiche, vengono eseguite in regime di ricovero ospedaliero. Le chirurgiche generalmente in Day Hospital, con due accessi in ospedale: uno per le procedure pre-operatorie e l’altro in ricovero diurno per l’intervento. L’Ivg farmacologica richiede invece almeno tre giorni di ricovero sulla base delle linee di indirizzo del Ministero Salute pubblicate nel 2010 e ormai superate nei fatti dalle regioni (Lazio, Emilia Romagna, Toscana, Puglia e da ultimo Lombardia), che hanno adottato invece il regime di ricovero in Day Hospital.
In questo caso gli accessi ospedalieri per l’aborto farmacologico sono tre, se non quattro: il primo per incombenze analoghe al chirurgico; il secondo per la somministrazione della compressa di RU 486 (che può essere fatta anche al primo accesso); il terzo in ricovero diurno per la somministrazione delle prostaglandine e il quarto per il controllo ambulatoriale post-procedura.
Oltre a questa disincentivante complessità di procedura, le nostre linee di indirizzo pongono il limite delle 7 settimane di gravidanza, mentre in altri paesi europei è di almeno 9 .
La pandemia impone di limitare gli accessi in ospedale per ridurre il rischio di contagio; per questo gli altri Paesi puntano a deospedalizzare, privilegiando la Ivg farmacologica «at home», con una sola prima visita in ambulatorio e il resto della procedura a domicilio; addirittura, in casi di particolare difficoltà, Francia e Regno Unito raccomandano di eseguire la procedura completamente da remoto, in telemedicina e senza alcun accesso in ambulatorio.
Il paradosso italiano nasce dalle linee di indirizzo ministeriali, ideologiche e antiscientifiche, che impongono il ricovero ordinario e di fatto rendono, in tempi di pandemia, l’ Ivg chirurgica meno rischiosa della farmacologica. Si obbligano così molte strutture a bloccare o limitare le Ivg farmacologiche, all’opposto di quanto avviene nel resto del mondo.
Questa situazione paradossale sta, nei fatti, limitando il diritto delle donne di avvalersi della legge 194/78.
Il regime ambulatoriale per l’Ivg farmacologica rispetta la legge n. 194/1978, che indica, tra le strutture sanitarie nelle quali può essere praticato l’aborto, anche il poliambulatorio. Sarebbe anche rispettata la relazione di natura diretta tra sanitario e donna , secondo la finalità di prevenzione indicata all’art. 14, che obbliga il medico a fornire la consulenza contraccettiva. Quindi non si deve neppure modificare la legge. Basterebbero anche disposizioni organizzative che valessero a legittimare l’operatore.
Se l’aborto non è ancora un diritto per le donne italiane, che possono accedervi solo se esiste un rischio per la loro salute, fisica o psichica, oggi l’emergenza Coronavirus mostra l’assurdità ideologica di linee di indirizzo che devono essere cambiate con urgenza, ammettendolo fino a 9 settimane, eliminando l’obbligo di ricovero e permettendo solo il Day Hospital e il regime ambulatoriale. Con notevole risparmio, tra l’altro, di risorse preziose per il nostro Ssn.
Da tempo tali richieste sono avanzate dalle associazioni che si occupano di salute riproduttiva e di diritto all’Ivg, con petizioni e lettere aperte; oggi sono in linea, con richieste analoghe, quella della rete ProChoice e l’altro di Snoq Torino. Un impegno che oggi non può essere disgiunto da quello per un cambiamento culturale che riconosca pienamente il valore morale della scelta delle donne.
* ginecologa Roma
** avvocata Bologna
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