Aborigeni d’Australia, i segni di una resistenza che intreccia arte e vita
Intervista Un incontro con Jayne Christian, avvocata e artista della Nazione Dharug presente nell’odierna Sydney. «Il 14 ottobre si vota per stabilire che siamo i 'Primi Abitanti del Paese'. Senza aspettare questo riconoscimento della nostra sovranità, la incarniamo ogni giorno»
Intervista Un incontro con Jayne Christian, avvocata e artista della Nazione Dharug presente nell’odierna Sydney. «Il 14 ottobre si vota per stabilire che siamo i 'Primi Abitanti del Paese'. Senza aspettare questo riconoscimento della nostra sovranità, la incarniamo ogni giorno»
Rinnovando la tradizione aborigena fondata su una creatività organica e diffusa, Jayne Christian è al tempo stesso avvocata e artista. Nata nel 1987, appartiene al clan Baramadagal della Nazione Dharug, popolazione indigena dell’attuale area di Sydney. L’abbiamo incontrata alla Cité Internationale des Arts, in occasione del suo open studio dove mostrava le opere realizzate durante la sua residenza nell’istituzione parigina.
Lei racconta storie di resistenza e rivoluzione, mixando gli stili tradizionali e contemporanei dell’intreccio di materie vegetali. Come è nato il suo interesse per quest’arte tipicamente femminile?
Quest’arte è stata rivitalizzata da un gruppo tribale dell’Australia del Sud che l’ha preservata, nonostante la repressione della nostra cultura, e che, per favorire il benessere individuale (gli aborigeni soffrono dei tassi più alti di mortalità precoce e suicidio) e rafforzare i legami comunitari, l’ha insegnata ai nostri clan una decina di anni fa. Mia madre vi si è subito consacrata con le altre donne. Io, all’inizio, trovavo la tecnica troppo difficile e i loro «circoli d’intreccio» una cosa da anziane. Ma poi mi sono seduta con loro, ho imparato e non ho più smesso! I circoli che organizziamo formano spazi creativi in cui ci riappropriamo della nostra storia, troppo spesso fuorviata quando non cancellata dal potere coloniale. Per noi è fondamentale ricostruire la nostra espressione culturale, riedificando la nostra identità e le nostre comunità. Molti non capiscono cosa significa essere aborigeni oggi, le nostre responsabilità, lo sguardo su noi stessi e sugli altri, e il nostro agire nel mondo a partire da questa prospettiva… Far evolvere questa conoscenza con l’arte dell’intreccio è tra i miei obiettivi.
Durante la sua residenza ha lavorato su un progetto espositivo volto a suscitare la riflessione del pubblico sull’identità e sulle forme di liberazione e resistenza possibili oggi. Che strategia ha adottato?
Ho voluto mettere in luce figure coraggiose, che resistono allo status quo. Riunire alcune voci rivoluzionarie francesi di epoche diverse e farle dialogare con quelle aborigene nello spazio espositivo mi sembra un buon mezzo per evidenziarne i tratti comuni. Il mio tamburo intrecciato evoca le parole di Giovanna d’Arco quando dice di essere lo strumento di Dio, richiamando quella fede assoluta che caratterizza le donne e gli uomini come lei, che agiscono come guidate da una potenza superiore. Quello che Giovanna chiama Dio, gli aborigeni la chiamano terra o antenati: la connessione con qualcosa di più grande di sé, che fonda la giustezza della propria lotta. Chi ha questo coraggio, non aspetta che le cose cambino, ma guida il cambiamento, e più che a morire per la causa, è pronta a viverla, incarnandola.
Per la sua cesta-culla intitolata «La nostra esistenza è la nostra resistenza» lei ha privilegiato l’uso di materie vegetali che ha raccolto e tinto alla maniera ancestrale: perché?
Per la connessione con la comunità e con la terra. Ho scelto di raccogliere le erbe nel giardino del Blacktown Arts che ospiterà la mia mostra e le piante tintoree nelle Blue Mountains, per quest’opera che attiva la conversazione sul lignaggio aborigeno e l’importanza di perpetuarlo. Il riconoscimento del nostro lignaggio si fonda su un preciso protocollo, indispensabile per ottenere l’accettazione della comunità. Mia nonna, con l’aiuto di mia madre, l’ha seguito negli anni Novanta. Ha cosi potuto ritrovare nei registri ufficiali la nostra prima antenata aborigena, strappata ai suoi nel 1820, quando i massacri nella baia di Sydney erano ancora all’ordine del giorno. Aveva otto anni e fu rinchiusa nell’Istituto per i Nativi di Parramatta. Creato nel 1815 per i bambini indigeni portati via dalle loro famiglie con la forza o con l’inganno, educandoli per lo più al lavoro domestico nelle case dei coloni, questo istituto è il precursore di quella politica all’origine della «Generazione rubata» che verrà poi adottata in tutto il paese e abrogata solo negli anni Settanta. La mia antenata, registrata col numero 34, fu poi chiamata Margaret Reid, e messa a servizio presso un reverendo della regione. Qui, com’era d’uso nella colonia penale a cielo aperto che era allora l’Australia, scontava anche la sua pena il detenuto inglese Jonathan Goldspink, che lei sposerà nel 1832 e con cui avrà 13 figli.
Come si accordano la sua ascendenza e i suoi tratti fisici europei con l’identità aborigena?
Per gli aborigeni il colore della pelle non è un problema quando si segue il protocollo. Del resto, anche il mio avo inglese aveva subito uno sradicamento traumatico con la deportazione in Australia. Quindi il mio lignaggio europeo non sminuisce la mia responsabilità aborigena. Anzi, ne è un alleato. Certo, sono destinataria di un trattamento diverso rispetto agli aborigeni di pelle scura, ma devo far fronte ad altre forme di razzismo non meno nocive.
La lotta contro il razzismo è un suo impegno costante come avvocata, ed è anche al centro della sua opera «Stop/arrêt».
Quando sono arrivata in Francia, sono rimasta colpita dalle rivolte scatenate dalla morte di Nahel, un ragazzo franco-algerino di 17 anni, ucciso da un poliziotto. Sono andata alle manifestazioni, ho parlato con la gente, e appreso che Nahel era solo l’ultimo di una lunga serie. Da noi i giovani aborigeni sono presi di mira allo stesso modo. Fatti atroci, troppo spesso liquidati come incidenti isolati. Quando, in verità, sono un grave sintomo della società coloniale dominante. Dopo l’ennesimo assassinio, gli anziani della nostra comunità hanno intimato lo «Stop», reclamando una tregua. Ho voluto quindi intrecciare le due storie in un quadrato di medie dimensioni, con un cerchio rosso al centro e sopra la scritta «Cessate il fuoco» e sotto «Non perdonare né dimenticare», eco delle manifestazioni francesi, per ricordare che se non si agisce per smantellare il sistema che li produce, questi abusi non svaniranno da soli.
Con «Fishy» invece riprende il proverbio del pesce che puzza sempre dalla testa per interrogare i rapporti ambigui tra il governo australiano e i Primi Abitanti del paese…
Questo proverbio tornava spesso nelle conversazioni sulle trattative tra i nativi e i governi cui ho partecipato durante la conferenza del Meccanismo di esperti sui diritti dei popoli indigeni, all’Onu di Ginevra nel luglio scorso. Mi ha quindi ispirato la forma di quest’opera, nata ragionando sul referendum del 14 ottobre, che chiede ai cittadini di esprimersi sul riconoscimento degli aborigeni e degli isolani dello Stretto di Torres come Primi Abitanti dell’Australia via l’istituzione di un comitato consultivo. Detto «La voce degli indigeni» e sotto stretto controllo parlamentare, questo comitato viene spacciato come un avanzamento dei nostri diritti, quando invece l’Australia è vincolata a sostenere e creare piani d’azione che implementino la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei Popoli Indigeni, da lei firmata nel 2009, che prevede ben altro. Ma riconoscere la nostra sovranità legale significherebbe per l’Australia fare i conti con la sua stessa sovranità. Se consideriamo che dopo l’invasione nel 1788, la Corona britannica non ha mai concluso alcun trattato con i Primi Abitanti dell’Australia, potremmo infatti affermare che, da un punto di vista legale, l’invasione è ancora in corso. Quest’opera vuole appunto attirare l’attenzione sull’ambiguità giuridica della sovranità australiana e sull’illegittimità di uno Stato le cui leggi e politiche non hanno fatto altro che mercificare gli organismi, le risorse e la terra dei Primi Abitanti a profitto del progetto coloniale. Ma, come già sottolineavano rivoluzionari come Marat, nessuno ti soggioga per secoli per poi sedersi al tavolo con te come tuo pari. Certo, è tentante credere a quanto dice l’oppressore per ottenere l’obbedienza dell’oppresso, ma i nostri interessi sono intrinsecamente distinti. Opposti. Noi sappiamo che l’Australia era, è, e sempre sarà terra aborigena. La grande difficoltà è che il nostro popolo è stato devastato dalla colonizzazione, ci vuole tempo per risollevarsi. Per questo, lavoro anche col Consiglio dei trattati, una struttura centralizzata nata nel 2019, che può essere compresa da organizzazioni come l’Onu e altre entità politiche ed economiche.
Lo scopo principale di questo Consiglio è proprio l’indipendenza economica dei popoli indigeni che rappresenta. Come conta di raggiungerla?
Abbiamo fatto confluire le nostre conoscenze e protocolli in una costituzione e formiamo una confederazione di nazioni tribali unite sotto il Consiglio. Aiutiamo ogni gruppo tribale interessato a definire la propria costituzione e a stipulare trattati col Consiglio e altri gruppi e organismi. Certo siamo solo agli inizi. Ma oggi possiamo finalmente ritrovarci fianco a fianco per essere quello che siamo e non quello che il governo ci dice che dobbiamo essere. Senza aspettare che riconosca la nostra sovranità, la incarniamo e cosi facendo avanziamo davvero.
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