Cultura

Abitando una lingua precaria e afasica

Abitando una lingua precaria e afasica«The Squash», una installazione di Anthea Hamilton (Tate Gallery) – Seraphina Neville

SCAFFALE «Lucifer over London. Guida alla città adottiva», alcuni scrittori, di cui nessuno inglese, raccontano la capitale. Tra gli autori del volume: Shaleh Addonia, Chloe Aridjis e Susana Moreira Marques

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 26 luglio 2018

Londra, la quinta città italiana, è lo spazio di transito, o di residenza precaria, di numerose realtà contigue perlopiù nella zona settentrionale e orientale, da Camden Town a Islington, da Kentish Town a Shoreditch, a Hackney. Ma per gli scrittori che raccontano il proprio rapporto con la capitale in Lucifer over London. Guida alla città adottiva (Humboldt Books, pp. 151, euro 15), Londra – la città afasica – è soprattutto una lingua, la lingua apolide madre di tutte le lingue. Gli autori qui riuniti, nove londinesi rigorosamente non inglesi, a parte una, provengono dai paesi di immigrazione più recente e sono stati quasi tutti ospiti delle ultime edizioni del Babel Festival di Bellinzona. Raccontano la città in cui vivono contaminando l’inglese con la propria lingua madre, che da sotto spinge per incresparne la superficie, per rendere inquieto l’andamento sintattico di una frase o colorarne di tonalità inaspettate le parole. In questa raccolta di narrazioni a più voci, ben rese in italiano da Nausikaa Angelotti, Vanni Bianconi, Marina Mercuriali e Daniela Marina Rossi, ognuno scrive – e nella vita parla – l’inglese come gli va, moltiplicandone le potenzialità espressive, rendendo la lingua sempre più tollerante nei confronti dell’alterità, e facendo di Londra un luogo sempre più vivo e contraddittorio.

PER L’ERITREO Shaleh Addonia, gli spazi di Londra non hanno pietà. Si è convinti di conoscerli perfettamente, ma loro non ti riconoscono: «Ti sputano dietro appena te ne vai». Anche nei confronti dei londinesi il giudizio non è meno aspro: «Nelle mie passeggiate incontravo gli abitanti di Islington. I nostri sguardi si incrociavano ma solo per cambiare rotta e guardare dalla parte opposta».
Chloe Aridjis invece, di padre messicano e madre statunitense, si considera «una piccola nomade», ma da quando ha ottenuto la cittadinanza britannica, Londra è casa sua. Una Londra sempre vista in controluce sullo sfondo di Berlino, l’altra città europea in cui Aridjis ha risieduto per anni e sulla quale ha scritto un libro che si vorrebbe veder tradotto presto in italiano, lo stupefacente Book of Clouds. Sono gli oggetti a consentire di misurare lo spazio di Londra rispetto a Berlino, perché «non hanno il fremito della storia».

IL RACCONTO di Aridjis sorprende per le sue impennate surreali o per l’esplorazione di uno spazio letterario e non solo di vita vissuta. Le sue previsioni meteorologiche stimano infatti l’arrivo di «un forte sistema di bassa poesia che oggi porterà metafore e similitudini potenzialmente rovinose su tutta l’Inghilterra».
Xiaolu Guo, scrittrice e film-maker cinese, percorre le vie della città cercando di non farsi notare tra la folla e quando entra nel municipio di East London, dove presterà giuramento per diventare cittadina britannica, osserva a lungo lo spazio interno prima di decidere dove sedersi.

I luoghi della città aiutano a definire lo spazio interiore e la percezione di sé anche là dove l’io si perde nelle astrazioni, prigioniero di una cerebralità asfittica, come nelle narrazioni di Vianni Bianconi e Joanna Walsh. Il dentro e il fuori si contendono gli spazi in modo agguerrito: «Non ho un posto dove andare, adesso, per le strade di Londra; non un posto dove andare se non a casa». Così scrive Walsh, per cui Londra è una città di interni, «ma appena pensi di essere dentro ti sbatte fuori come una porta girevole». A Susana Moreira Marques la vista della città da una finestra panoramica, «una mappa creata da luci nel buio», dà la cupa sensazione di contemplare il deserto in cui sparire senza lasciare traccia, nient’altro che «un punto di luce in un firmamento complesso». Ma gli spazi interferiscono anche con la creatività e la limitano. Della gente che incontra per strada Marques scrive: «Non ho storie per queste persone. Sarebbe un tradimento inventare storie per loro, perché sono arrivate qui con storie personali fin troppo vere, e gli costa un grande sforzo anche solo essere se stesse».

GLI SPAZI londinesi sono raccontati nel modo forse più suggestivo dal racconto fotografico di Wolfgang Lehrner che chiude il volume. Le immagini, in uno scarnificante bianco e nero, sono state concepite come delle istantanee scattate saltando su e giù da un autobus e colgono spesso i passanti mentre varcano una soglia, il limen sul quale sostano gli autori qui riuniti – tra due lingue, due culture, due paesi. In realtà, non esiste una sola Londra. Come scrive Zinovy Zinik, ce ne sono molte, «città dentro la città con mondi dentro altri mondi», una matrioska in cui alcuni sentono di non poter vivere.
Il disagio di un’identità precaria è però mitigato dalla consapevolezza di avere una lingua comune, «una lingua adottiva», mentre gli spazi della città consentono di «imparare a credere nel luogo come conoscenza».

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