«Via, via, via, disse l’uccello: il genere umano non può sopportare molta realtà. Il tempo passato e il tempo futuro, ciò che avrebbe potuto essere e ciò che è stato puntano ad un fine, che è sempre presente». Nei Quattro Quartetti, T.S. Eliot scriveva versi pressoché definitivi sulla condizione umana. Ed è proprio la condizione dell’uomo, costantemente sospesa tra vertiginose antinomie, il vero centro dell’interesse della tragedia greca e del lavoro, da molti anni, di Davide Susanetti, come conferma il nuovo, come sempre originale e illuminante, saggio: L’altrove della tragedia greca Scene, parole e immagini (Carocci editore «Frecce», pp. 187, euro 20,00). Susanetti giunge forse alla conclusione di un percorso comprendente La via degli dèi. Sapienza greca, misteri antichi e percorsi di iniziazione (2017), Il simbolo nell’anima (’18) – dedicato alla ricerca di sé e alla tradizione platonica – e il più personale Il talismano di Fedro (’21) dove rifletteva tra il Fedro, Farîd ad-Dîn ‘Attar e la laguna incantata della Morte a Venezia di Mann.

In questo L’altrove Susanetti ritorna alla tragedia, e apre il libro con il dio tragico per eccellenza, Dioniso, nella tragedia per eccellenza, le Baccanti, dove Dioniso, che ha già fatto impazzire le donne di Tebe, punisce e fa impazzire anche Penteo, colpevole di averlo rifiutato. La scena in cui Dioniso conduce alla follia il principe tebano è tra le più eroticamente perverse della letteratura di ogni tempo: Penteo, suo malgrado, è sedotto da Dioniso: lo guarda, lo teme, lo vuole («Non hai un brutto aspetto: così almeno ti giudicherebbero le donne… Hai riccioli lunghi, ti scendono lungo le guance, ispirano desiderio. Sei attento a conservare candida la pelle: fuggi il sole, e vai a caccia di amori con la tua bellezza, nella tenebra»), anche se non vuole, come la Fedra di Seneca («non voglio quello che voglio»). Vestito da donna, poi, si abbandona totalmente al dio, gli domanda di truccarlo, gli dice di essere nelle sue mani, e, inesorabilmente, impazzisce, mentre Dioniso pronuncia versi tremendi: «Prima non eri sano di mente, ora sei come dovresti essere».

Poco prima, gli aveva detto parole ancor più definitive, irresistibili e, al contempo, spaventose: «Non sai come vivi, quello che fai, non sai nemmeno chi sei». E spaventose saranno anche le parole che chiudono il dialogo tra i due, e precedono la follia di Penteo: «Sei un uomo tremendo (deinós) e ti avvii a cose tremende». L’aggettivo deinós, osserva Susanetti, è «parola caratteristica del gioco tragico. Terribile è Dioniso. Terribile è quanto accade a Penteo, così come agli altri eroi che popolano le scene. Deinón è sempre il páthos, “ciò che si subisce”, o “si patisce”, mano a mano che l’azione si svolge: catastrofe, sofferenza, perdita, morte. Ma in questo patire a cui non si sfugge vi è forse qualcosa che apparenta la tragedia al rituale dei misteri e delle sacre iniziazioni che si celebravano nel nome di Persefone, di Demetra e di Dioniso stesso». Dopo il patimento e il buio, infatti, si manifesta una «luce meravigliosa», con «voci, danze, musiche solenni e visioni», e viene conquistata una nuova libertà: è una condizione meravigliosa, «dove tutto diventa ritmo, musica, calore», dove l’identità è annullata, e l’uomo non è più uomo, ma «una scheggia luminosa penetrata da un’immane felicità», come dirà l’impetuosa, nietzschiana e anche molto dionisiaca Clarisse dell’Uomo senza qualità al turbatissimo Ulrich durante una delle sue irresistibili «uscite da sé».

E nella tragedia, non a caso, l’alterità è spesso rappresentata dalle donne: come erano le donne a lasciarsi possedere da Dioniso, «il femminile tragico» – argomenta bene Susanetti –, «è il negativo della città, è lo specchio dionisiaco che il maschile suscita con le proprie incoerenze, l’immagine di sé che non si vorrebbe e che pure è necessario incontrare, magari per esserne annientati»: è Medea, barbara, straniera, «l’alterità assoluta che dissolve ogni paradigma», che uccide i suoi figli eppure, in un finale di oscurità abbagliante, appare trionfante sul carro del Sole in fuga da Corinto e diretta ad Atene, mentre il Coro – di donne – canta: «e questa città di sacri fiumi, questa terra che cammina a fianco degli dèi come potrà accogliere te, assassina dei tuoi figli, macchiata del loro sangue in mezzo agli altri cittadini?».

Medea, che «non è una donna, ma una fiera più selvaggia di Scilla», come le grida con furia disperata Giasone, è il più clamoroso deus ex machina che la tragedia greca conosca, e sarà accolta nella città della giustizia e dell’Areopago: come Dioniso sovverte l’ordine di Tebe e distrugge la famiglia reale della polis, Medea distrugge Corinto pronunciando parole terribili come saranno quelle di Dioniso alla fine delle Baccanti («avevo patito da voi cose terribili. Il mio nome non riceveva onori, a Tebe»): a Giasone che le domanda perché abbia ucciso i loro figli, Medea risponde infatti, semplicemente e inesorabilmente: «Perché tu soffra». Come Dioniso, insomma, Medea rappresenta l’eccesso, quello che non si può controllare, che è spesso legato al tema dei misteri, molto caro all’autore: che qui sceglie di considerare un canto discusso ed enigmatico di una tragedia altrettanto discussa ed enigmatica, l’Elena di Euripide.

Nel secondo stasimo dell’Elena, attraverso il sincretismo tra Demetra e una dèa asiatica, la Madre degli dèi, Euripide rievoca il rapimento di Persefone: dopo la disperazione, la rabbia e la carestia inflitta agli uomini per vendicarsi, la Madre sente il suono degli strumenti a percussione, tipici delle cerimonie misteriche di carattere orgiastico, e sorride. Nonostante la perdita della figlia, quindi, la dèa può essere consolata, e questo avviene solo grazie alla musica, al canto e alla danza: cioè grazie al rito. Tra germogli d’edera intrecciati, tirsi e chiome follemente agitate in onore di Dioniso, la dèa, come gli iniziati ai misteri, ritrova infine la luce dopo il buio, e può sorridere di gioia: «e di questa gioia, almeno – conclude Susanetti –, non c’è da dubitare».