Cultura

Abbracci tentacolari

Poesia L'ultima raccolta di versi di Milo De Angelis, «Incontri e agguati», pubblicato da Mondadori. Un faccia a faccia con il viaggio finale e le sue lusinghe

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 6 agosto 2015

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Nella scrittura di Milo De Angelis sempre affiora il fatto esperienziale, essa non potrebbe darsi se non fosse contigua a questo dato quasi essenziale al vivere: la relazione umana con i suoi abissi e i suoi stupori. L’opera di De Angelis registra minutamente gli accadimenti e i cambiamenti interni della psiche umana e li offre al lettore nella forma di interrogazioni esistenziali da cui ripartire nel silenzio della pagina. Nel suo ultimo libro, Incontri e agguati (Mondadori, pp.65, euro 18), la scrittura poetica si apre con un corpo a corpo drammatico con la signora morte e i fotogrammi che si succedono nelle pagine sembrano esplosioni visive il cui sfondo è come sgranato e l’istantanea di bergmaniana memoria, illumina solo i due visi: il poeta e la morte loro sì nitidissimi; e quest’ultima a volte assume le forme tentacolari di lontani amori dell’interlocutore che vogliono ammaliarlo ma anche ammonirlo, sulla vanità di ogni tentativo di dare ad essa un volto certo.
Lo spazio dialogante tra i due non avviene come in certi notturni romantici ma in una luce accecante, atemporale, che tutto sbiadisce, se non appunto il contorno della nera signora che sembra avere una forza, una violenza arcaica: « …/ha fatto incursioni, all’alba, nella casella della posta, ha ripreso/la sua cerimonia incessante, ha diffuso/ un canto di puro gelo/ ha cercato proprio noi». E le pagine se le si leggono con attenzione sono sempre un sommovimento verso il compiersi tragico di ogni destino. Cosa sono le tante figure della seconda sezione intitolata appunto, Incontri e Agguati, se non il residuo di certe ombre sì memorabili ma che nel rigo sono come scolorite definitivamente anche se la grammatica poetica nel riaccenderle dà quella vividezza dei momenti migliori: « …//Ma oggi ti è riuscito/ l’antico affondo, il pezzo di bravura, /chiamandomi per nome tra la Polfer e i sonnambuli/ del binario ventidue ’Ti ricordi di me?/Io abito qui’. ’Ricordo quella versione/ di Tucidide difficilissima. Solo tu…solo tu.’/ ’Toiósde men o táfos eghéneto…’».

La parola di Milo De Angelis, ha assunto su di se questo compito arduo ma benefico per ogni lettore di buona volontà: raccontare l’attimo in cui è racchiuso lo svolgersi ed il compiersi definitivo di ogni uomo con la sua virata verso il finale di partita. E così nell’ultima sezione dal titolo «Alta sorveglianza», ancora lo spazio della morte-dolore sembra fiorire per gemmazione dentro quello carcerario, dove la sofferenza di ognuno, si accresce all’infinito in un abisso di violenza rafferma tra i corridoi della struttura detentiva che richiamano i cerchi concentrici più opprimenti del Dante infernale: «Allora hai risposto, gentilmente, che sei tornato/dall’aldilà, hai risposto che dio non esiste/ma le anime sì: alcune sono rinchiuse in grandi pollai/dove tutti camminano lentamente/….». Sembra la scrittura di De Angelis, sempre alla biforcazione di un sentiero, rósa ed alimentata com’è al tempo, dal senso di fine incombente dei corpi, del pensiero, dei legami ma anche da questa educazione sentimentale alla vita, da questo cantare con parole nude, a volte leggere, il risvolto, il corsetto della signora morte, la vita appunto e il suo respiro.

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