«Non era un’improvvisatrice come Ella Fitzgerald, ma sapeva improvvisare sulle note dei sentimenti attraverso sonorità vocali molto originali, una timbrica più legata al significato del messaggio da veicolare che al virtuosismo canoro». È Abbey Lincoln secondo Ada Montellanico che firma la prefazione di un volume scritto da Luigi Onori Abbey Lincoln. Una voce ribelle tra jazz e lotta politica (L’Asino d’Oro edizioni, pp. 260, 15 euro). Critico«Una audience jazz ti accetta come sei. La folla di un supper club – racconta Abbey – vuole un buono show, soprattutto con tempi veloci, un bel po’ di sensualità, abiti eccentrici». accanto al racconto di un percorso artistico che porta Lincoln spesso fuori dai circuiti commerciali, tratteggia anche uno spaccato di America di quegli anni e dove il dramma della discriminazione razziale verso gli afroamericani è sottolineato in più occasioni.

IL DESTINO di Abbey sembra quasi predestinato, era nata infatti in un’area rurale del Michigan – in un periodo contrassegnato dalla Grande Depressione – dove passava la ferrovia sotterranea, quella che consentiva agli schiavi di provare a fuggire dai luoghi di prigionia. Il padre è un tuttofare, timide passioni per la musica, ed è soprattutto la madre a influenzare la figlia: Evalina Coffey aveva il dono della spiritualità e soprattutto era una grande storyteller. La giovane Anne Marie (il suo vero nome) muove i primi passi nei club dove le viene imposto un repertorio più facile, e le viene chiesto di «ingraziarsi» con movenze feline il pubblico maschile. «Una audience jazz ti accetta come sei. La folla di un supper club – racconta Abbey – vuole un buono show, soprattutto con tempi veloci, un bel po’ di sensualità, abiti eccentrici». L’incontro con Max Roach, che diventerà più avanti anche marito, spariglia le carte e segna la trasformazione della ventisettenne cantante da interprete ad artista a tutto tondo: «Ho imparato da lui il bebop e stili di jazz successivi e attraverso lui ho imparato ad adottare un approccio più serio alla mia carriera e al mio lavoro». In un ambiente stimolante conosce musicisti geniali ed impegnati che la portano ad avvicinarsi ai movimenti per i diritti civili degli afroamericani. Anche discograficamente Abbey – spiega Onori – ridefinisce i suoi obiettivi, e i suoi album la lanciano definitivamente nel circuito del jazz più avanzato .
Lo storytelling è sempre più centro della sua ispirazione e dell’arte compositiva, l’interpretazione sempre centrata ma lontana dai virtuosismi. Predilige i mezzi toni, le pause così come gli arrangiamenti degli album – sottolinea Onori – sono spesso curati da lei giocando in sottrazione ed evitando inutili abbellimenti. Si susseguono le collaborazioni, dopo Max Roach tra le più prestigiose quelle con Stan Gets, Hank Jones e prosegue la sua attività di autrice di testi: si cimenterà su musiche complesse come quelle di Coltrane.

UNA LUNGA pausa – legata alla depressione dopo il divorzio daRoach nel 1970 e alla malattia della madre – nei settanta per tornare negli ottanta e fino alla sua scomparsa nel 2010, con una media di un disco l’anno e un’intensa attività dal vivo. Una vita e un percorso artistico impegnativo quanto stupefacente, che Onori chiude riproponendo un’intervista con la cineasta Gabriella Morandi sul suo film Jazzwomen: The Female Side of Jazz (pubblicata in origine sul manifesto nel dicembre del 2001).