Su Giuseppe Primoli (1851-1927) ho scritto qualcosa di qui e di là consigliando la lettura del libro di Lamberto Vitali sulla sua attività di fotografo (Einaudi «Saggi», 1968) e anche la biografia di Antonello Pietromarchi redatta attraverso i diari in francese spesso inediti (Ponte alle Grazie, 1990). Primoli, dicevo allora, aveva una doppia natura: per nascita era legato all’oligarchia nera a cui apparteneva la famiglia paterna e nello stesso tempo all’aristocrazia dei napoleonidi essendo pronipote di Luciano Bonaparte – era per metà italiano e per metà francese. Consiglio ora le sue memorie di Roma scritte fra il 1871 e il 1879, quando era giovanissimo: Abbastanza straniero per visitare Roma, abbastanza romano per capirla (tab edizioni, 2020).

La natura del conte Primoli era doppia in tutti i sensi, colto e qualche volta brillante, leggero come una piuma e talvolta decisamente superficiale. Ogni tanto fin troppo mondano, posso dire quasi sciocco pur mantenendo l’attributo molto francese della boutade incisiva e chiara. Eccolo dire: «non tutti hanno il dono di avere gusto, ma tutti lo riconoscono dove lo vedono. Quella squisita armonia che risulta da mille elementi diversi è più difficile da realizzare che da apprezzare».

Albrecht Dürer, “Cristo fra i dottori”, 1506, Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza

Seguiamolo nel dicembre del 1873 mentre visita la raccolta Barberini: aveva allora ventidue anni e in quei giorni leggeva il libro di Ernest Renan su Cristo e vedeva a Roma, con devozione quasi filiale, Dumas fils, l’autore della Signora delle camelie. Palazzo Barberini era ancora la residenza del principe e della sua famiglia; il conte scrive di aver passato un’ora intera davanti a La morte di Germanico, il celeberrimo quadro di Poussin e allora uno dei dipinti più famosi di Roma. Molti anni dopo, nel 1934, la raccolta dei discendenti di Urbano VIII subì forse il più tragico dei misfatti mai commessi sugli insiemi artistici d’Italia in epoca moderna. Fu consentito alla famiglia di disperdere la raccolta anche oltre i confini nazionali, e molti capolavori andarono in esilio con tutti i crismi della legge.

Ciò accadde con quello che per molti è il più importante quadro francese del Seicento, dipinto a Roma per il cardinal nipote Francesco Barberini nel 1628. Primoli scriveva: «è una pagina di Tacito e una scena di Shakespeare, è concepito con semplice sobrietà… l’armonia è la causa delle qualità e dei difetti del quadro… è il classicismo nella accezione più completa… Assistiamo ai diversi effetti della morte… steso sul letto da campo Germanico, che sta per morire, parla, è rassegnato, non soffre più; raccomanda ai suoi soldati sconsolati suo figlio che ancora non soffre».

Nicolas Poussin, “La morte di Germanico”, part., 1627, Minneapolis Institute of Arts

Non molti individui nel tardo Ottocento erano in grado di ammirare quel quadro meraviglioso, e bisognerà aspettare la prosa eccezionale di Anthony Blunt e l’intelligenza di Pierre Rosenberg per capire appieno questo capolavoro. Ad ogni modo il quadro andò in esilio nel 1958 e finì in un luogo remoto, a Minneapolis, nel Minnesota, dove almeno si trova in buona compagnia dato che dell’Art Institute di quella città fu direttore per diversi anni Anthony Clark, uno dei migliori conoscitori americani della pittura italiana.

Sentiamo ancora Primoli, questa volta in una frase particolarmente acuta: «bisogna guardare ogni quadro secondo lo spirito del tempo in cui fu realizzato. Sarebbe assurdo chiedere a Dürer le stesse qualità di Raffaello. Ho notato il suo Gesù fra i dottori. Sono spaventosi e deve proprio essere un Dio quel ragazzo che non ne ha paura. A prima vista fa l’impressione di un agnello nella tana dei lupi e poi, poco a poco, ognuno assume la sua fisionomia caratteristica e ben distinta». Qui parlava di un altro quadro famoso appartenuto ai Barberini, opera del più noto pittore tedesco, Dürer appunto, che la eseguì a Venezia nel 1506 (prodigiosamente, in soli cinque giorni) ed è oggi nel Museo Thyssen a Madrid. Non sempre la rapidità è un segno del genio, infatti è noto come Vasari vantandosi con Michelangelo di aver dipinto una composizione in pochissimo tempo ricevette una risposta secca: «si vede, si vede».

Per finire soffermiamoci su quanto il giovane conte scrive su un altro capolavoro che era una volta presso i Barberini, quello che lui chiama il Crepuscolo di Claude Lorrain.

Il quadro apparteneva ab antico ai Barberini e viene menzionato dal Burckhardt ne Il Cicerone nella sua collocazione. Quando nel 1934 i dipinti furono dispersi il quadro poté essere venduto e lo acquistò per proprio conto la principessa Henriette Barberini; passò in seguito, nel 1963, al Fitwilliam Museum di Cambridge. Il grande esperto di Claude, Marcel Roethlisberger lo definisce Paesaggio pastorale con Castel Gandolfo, datandolo approssimativamente al 1639. Si tratta di un rame ottagonale (cm 30,5 x 37,5) che destò il fervore del nostro conte il quale, per far valere il suo entusiasmo, si avvalse di due precedenti eccezionali: «nel Crepuscolo di Claude Lorrain mi ha affascinato come, contemplandolo, ci si senta avvolgere dalla dolce malinconia che invade l’anima nell’ora in cui scende la notte: Ave Maria, it is the hour of prayer, Ave Maria, it is the hour of love, ha detto Lord Byron. Persino lo scettico Beyle (Stendhal) non è stato insensibile all’incanto poetico di quest’ora deliziosa e una sera si è commosso al punto di scrivere ‘Ave Maria, in Italia ora della tenerezza, del piacere dell’anima e della malinconia: sensazione accresciuta dal suono delle belle campane, le ore di piaceri sono collegate ai sensi solo dai ricordi’. Che digressione, ma la capacità di un’opera d’arte è questa, aprire degli orizzonti alla nostra mente e risvegliare in noi tutto un mondo dimenticato, uno sciame di idee che attendono solo un raggio di sole per battere le ali, cinguettare e volare via». A questo punto è meglio che io taccia.