«La prossima settimana avrò 60 anni e, ci pensavo qualche giorno fa, da 50 anni, da quando ero un bambino, sento parlare degli israeliani che vogliono prenderci la casa e quelle dei nostri vicini», ci dice Yacoub Abu Arafeh accogliendoci nel giardino della sua bella abitazione in pietra a Sheikh Jarrah, nel centro di Gerusalemme est, la zona palestinese della città occupata da Israele nel 1967. «È sfibrante vivere con l’ansia – aggiunge -, con l’angoscia di ricevere, da un momento all’altro, l’intimazione di un tribunale israeliano che ti ordina di evacuare la casa dove sei nato, dove hai sempre vissuto, dove sei cresciuto con i tuoi fratelli. Non si vive con il fiato sul collo di polizia e coloni». In questi ultimi dieci di questi 50 anni di ansia e preoccupazione, Abu Arafeh, un insegnante di sostegno per bambini con disabilità, è diventato un portavoce delle 28 famiglie palestinesi, oltre 500 persone, di Sheikh Jarrah che rischiano di essere sgomberate con la forza dalle loro case per far posto a coloni israeliani.

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«Nel 1956 – racconta – Gerusalemme era divisa in due, la parte ovest sotto Israele e quella est sotto la Giordania – e l’Unrwa (l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi, ndr) e le autorità giordane assegnarono 28 abitazioni ad altrettante famiglie palestinesi sfollate che nel 1948 avevano perduto le case, prese dagli israeliani. I Sabbagh vivono lì (ci indica), avevano una villa a Giaffa. Scapparono per via della guerra e non l’hanno mai riavuta. Quando arrivarono qui da sfollati non avevano più nulla». I nuovi guai – aggiunge Abu Arafeh servendoci un caffè – sono cominciati dopo l’occupazione della zona palestinese di Gerusalemme. «Nel 1972 ci furono le prime voci di israeliani ebrei che prima del 1948 vivevano qui e che chiedevano indietro queste case, poi questi proprietari sono diventati, non sappiamo come, i coloni. La pressione è aumentata anno dopo anno, fino ai primi sgomberi con la forza seguiti alle sentenze dei tribunali. Ricordo ancora le lacrime della famiglia Ghawi. E va avanti ancora oggi. Dodici famiglie devono sgomberare, quattro saranno cacciate via a maggio, Iskafi, al Jaouni, al Kurd e al Qasim e tre ad agosto Hammad, al Daoudi e al Dajani».

Ai giudici e ai coloni israeliani Abu Arafeh propone uno scambio: «Restituiteci le nostre case a Giaffa, a Gerusalemme ovest e in tante altre località, quelle che ci avete preso nel 1948 e noi vi ridiamo queste a Sheikh Jarrah. Non ci state? Allora lasciateci in pace». Non è una battuta quella di Abu Arafeh. La sua proposta indirettamente illustra un capitolo corposo della storia di questa terra dopo il 1948. Secondo la legge israeliana un cittadino ebreo ha il diritto di reclamare le sue proprietà che tra il 1948 e il 1967 furono state assegnate ai palestinesi dalle autorità giordane. Un palestinese non può fare altrettanto con la sua casa occupata dagli israeliani. Le proprietà dei profughi e degli sfollati palestinesi dopo il 1948 furono in gran parte confiscate e assegnate – con la Legge sulla proprietà degli assenti del 1950 – a un ente creato ad hoc che da allora le amministra per conto dello Stato. «Non ce ne andremo, anche se dovessimo vivere in tenda» promette Abu Arafeh «Non andremo in Cisgiordania perché è ciò che vogliono i coloni, cacciarci via da Gerusalemme».

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A un paio di chilometri di distanza, a Silwan, ai piedi della città vecchia di Gerusalemme, altri coloni israeliani dell’organizzazione Ataret Cohanin, sono impegnati nelle pulizie dei tre edifici palestinesi – 16 appartamenti – nel rione di Al-Hara Al-Wusta in cui sono entrati tre giorni fa. Non si tratta di una occupazione questa volta. I proprietari palestinesi le hanno vendute, assieme a 800 metri quadrati di terra, ai coloni in cambio di milioni di dollari. Poi sono spariti nel nulla. Si tratta di un nuovo passo in avanti nella conquista di Silwan dove El Ad, l’«immobiliare» di Ataret Cohanim, ha costruito la Città di Re Davide, un parco biblico che domina il quartiere. Negli ultimi anni i coloni sono riusciti ad espandersi in modo significativo nel cuore di Silwan e puntano ora a collegare i loro insediamenti da Wadi Hilweh e Batan Al-Hawa verso Ras Al-Amoud e il Monte degli Ulivi.

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È venerdì e decine di attivisti israeliani si sono uniti ai palestinesi per la manifestazione settimanale a Sheikh Jarrah. Il corteo avanza verso quella che fino a dieci anni fa era l’abitazione della famiglia Hannoun e in cui vivono due famiglie di coloni. Lior è venuto da Tel Aviv. «Cerco di dare il mio contributo, è una violazione di diritti (palestinesi) inaccettabile, siamo a Gerusalemme Est, questa è la capitale della Palestina», ci dice mentre i suoi compagni scandiscono slogan. Gli attivisti hanno anche lanciato una campagna internazionale online #SaveSheikhJarrah. «Questi israeliani ci appoggiano, sono dalla nostra parte, ne sono contento e li ringrazio» commenta Yacoub Abu Arafeh «ma sono pochi e noi palestinesi abbiamo bisogno di più sostegno contro il gigante che abbiamo davanti. Agli europei e agli americani chiedo di non dirci solo belle parole, devono proteggerci sul serio».