Questo libro di Giovanni e Ludovico Renzi La scuola italiana e la pubblicità Penne, matite, gomme e astucci dal 1920 a oggi (Silvana Editoriale, testi in italiano e in inglese, pp. 232, euro 36,00), avrebbe potuto essere piuttosto seccaginoso, se gli autori avessero tenuto fermo il proposito iniziale «di utilizzare gli astucci e la loro diversità come filo rosso per parlare della scuola italiana dalla Riforma Gentile del 1923 fino ai giorni odierni». Ecco allora che sarebbero scomparsi le penne, i pennini, i portapennini, le gomme (anche nella loro versione a forma di bastoncino da sbucciare come un lapis), i nettapenne e le matite, semplici o colorate, e tutto il variopinto materiale documentario che, ridotto e sfoltito, avrebbe dovuto piegarsi a far da compagine al discorso storico. Noi allora avremmo mancato l’occasione di vedere rigorosamente catalogato un copioso numero d’oggetti non del tutto sconosciuti ai nostri occhi, ma che nessuno prima d’adesso aveva, a mia memoria, provato a ordinare e sottoporre a un po’ di disciplina storica; e non che questi oggetti non avessero una storia, ma era di quelle vaghe e nostalgiche le quali cominciano col «c’era una volta».

Ora, tornando al discorso introduttivo degli autori, si diceva appunto ch’essi avevano trovato pressocché impossibile ridurre la varietà offerta dall’istituzione scolastica nel nostro paese dal 1920 a oggi in un unico racconto condotto attraverso la metamorfosi degli astucci. Troppa differenza fra il corredo dello scolaro del nord e quello del Mezzogiorno, tra il discepolo d’una scuola di campagna, ch’era alle volte accompagnato a scuola con la forza a braccetto di due pizzardoni, e di città; sicché Giovanni e Ludovico Renzi hanno preferito abbandonare questa idea e concentrarsi «non solo sugli astucci ma anche sul materiale che contenevano in questi ultimi cent’anni», dando al libro una forma che in effetti somiglia, almeno un po’, proprio a quella di un astuccio il quale, una volta che lo si sia squadernato, mostri in bell’ordine e in bell’agio gomme, righelli, lapis e temperini.

Per certi aspetti l’evoluzione di questi oggetti attiene alla storia dell’industria e della pubblicità: la continua scoperta di nuovi materiali permise di creare strumenti sempre più efficienti che la fantasia dei pubblicitari coniava nella chiassosa e colorata lingua dei frugoli. Così l’invenzione di uno stoppino di feltro, capace d’assorbire l’inchiostro, permise di creare qualcosa di mezzo tra la penna e il pennello, per il quale la Bic coniò il nome di «feltrello», la R.P.R- Righella quello di «pennell-otto» e la Rico il più felice fra questi, che si trova ancora nei nostri dizionari, cioè «pennarello» («non sono penne né pennelli … sono pennarelli» recitava lo slogan).

Astuccio cerniera lampo Lyra, 1940 ca.; collezione Renzi

L’invenzione della «cerniera lampo» stimolò invece la creazione d’astucci di nuova invenzione della ditta Lyra, i Lampo, morbidi invece che rigidi come quelli che si erano fabbricati fino a quel momento e il cui costo, a dispetto della loro ordinarietà odierna, superava allora di molto quello dei più comuni a bottone.
La più importante invenzione che segnò il trapasso d’un epoca fu, tuttavia, la penna a sfera. Anche questa trovata fu possibile soltanto grazie a un accorgimento tecnico: la scoperta d’un inchiostro più denso che consentiva una scrittura senza sbavature. L’esuberanza promozionale con la quale venne diffusa ci dà le proporzioni della sua novità. Raymond Savignac concepì un bozzetto pubblicitario per la Bic con un uomo in maglione e cravatta con una grossa biglia in luogo della testa; Bruno Munari un manifesto per la Biro di Milano in cui il tratto della penna cingeva in un fiocco i simboli della chiave meccanica e del pennarello sopra la frase «tecnica ed arte hanno creato la nuova BIRO»; ma la più originale fu la pubblicità della Grinta sfera dove un androide di metallo nero, dalla vaga aria di famiglia con l’automa Gort della pellicola Ultimatum alla Terra, accompagnava la scritta «dal futuro GRINTA sfera, la penna dalla pelle dura». Si disse insomma addio al vecchio pennino, che nel suo esilio portò con sé un lungo stuolo di ministri, divenuti oramai inutili: il portapennino, la carta assorbente, il nettapenne.

E non fu tutto: con lui scomparve anche una maniera di scrivere, caratterizzata da quei tratti ora più spessi ora più sottili che risultavano dalla diversa pressione della mano sul foglio; ma, soprattutto, sparì il vecchio ritmo della scrittura: «le pause obbligate dall’intingere il pennino nell’inchiostro, pause che davan il tempo di ripensare a quello che si stava scrivendo». Le lettere si tracciavano adesso con più rapidità ed erano più uniformi. Senza voler nulla togliere all’opulenza e alla varietà della Parafrasi sul Rigoletto di Liszt o d’altri lavori consimili, la biro stette al pennino come il pianoforte all’orchestra. Alcuni modelli di stilografica, come la Giubileo 53 o la Scolastica, che permettevano, attraverso una piccola rotazione, di variare la flessibilità del pennino e con essa lo spessore del tratto, rappresentarono una debole resistenza. Debole sì, quasi nulla, giacché la grafia venne irrimediabilmente mutata, anche per chi, invece della penna a sfera, continua a utilizzare la stilografica.

Pur descrivendo nella storia dell’attrezzeria scolastica così tanti mutamenti, il libro di Giovanni e Ludovico Renzi è scevro di malinconia. I Policarpo De’ Tappetti di ieri apprenderanno domani a utilizzare i nuovi strumenti di scrittura, che saranno altrettanto fantasiosi dei vecchi. Intanto però qualcosa della materialità del gesto, con le sue pause e le sue cadenze, è andato ineludibilmente perduto. La macchina da scrivere col pestare secco dei suoi martelletti ci rassicurava del suo meccanico frastuono, il foglio digitale ci insidia d’immacolato silenzio. Ma forse in un giorno non lontano anche questo ci sembrerà desueto e, in un mondo ancora più tecnologico e svaporizzato, la lieve pressione sui tasti d’un laptop ci parrà nella sua concretezza come l’eco di un mondo svanito.