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A Saluggia il sito c’è già. E ora temono il resto

Piemonte Nel vercellese sono già stoccati la gran parte dei rifiuti. Con rischi e qualche incidente

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 14 gennaio 2021

Essere la capitale delle scorie radioattive senza avere mai ospitato una centrale nucleare. È lo strano caso di Saluggia, quattromila anime in provincia di Vercelli, dove in uno spazio, circondato da fiumi (la Dora Baltea e, poco più a valle, il Po, in cui confluisce), canali che irrigano le risaie e pozzi dell’acquedotto del Monferrato, è ospitata la maggior parte dei rifiuti a media attività d’Italia, i più pericolosi della nostra eredità nucleare.

Vengono custoditi là suta (là sotto in piemontese), in un luogo che fino al 2000 non compariva sulle mappe, stesso anno in cui Carlo Rubbia disse che, qui, con l’alluvione autunnale si era rischiata la catastrofe planetaria.

Nei primi anni ’60 a Saluggia fu avviata la costruzione dell’impianto Eurex per il recupero dell’uranio arricchito di Enea (un tempo Cnen), che calamitò barre di combustibile da ogni dove. Gian Piero Godio, presidente di Legambiente Vercellese, ha lavorato nell’impianto dal 1969 al 1994 come responsabile dell’automazione del centro di calcolo. «Realizzato con progetto targato Usa era considerato all’epoca – racconta – un grande riconoscimento per l’Italia: sciogliere le barre per recuperarne l’interno era un’attività delicata e consentita da Washington solo ai Paesi con affidabilità politica, tecnologia e competenze avanzate. Oltre all’uranio 235, però, si incominciò presto a recuperare plutonio 239, di cui si può fare uso militare. Il sospetto è che tra le strategie iniziali ci fosse quella di dotarsi di armamenti nucleari. L’impianto nella sua attività produsse 5kg di plutonio, indicativamente la quantità che serve per fare una bomba atomica. Non fu utilizzato e una decina di anni fa fu mandato negli Usa con un trasferimento di massima segretezza». Qui, arrivarono barre da molteplici luoghi: «Prima dal Canada, poi da Latina, Garigliano e Trino Vercellese. Dato che– aggiunge Godio – il magazzino non era sufficiente, furono convertiti in deposito nucleare i locali dove Sorin aveva un piccolo reattore per ricerca di base, il Deposito Avogrado di proprietà Fiat».

Nel 1987, quando si pose fine al nucleare in Italia, nell’impianto Eurex si trovava il risultato delle attività di riprocessamento. E lì vi sono ancora i rifiuti radioattivi liquidi, i più difficili da gestire perché intrasportabili. «Enea e poi Sogin – spiega Umberto Lorini, presidente Pro Natura Vercellese – avrebbero dovuto procedere alla loro solidificazione, ma l’impianto Cora ideato da Enea non è mai stato realizzato e il Cemex di Sogin è in ritardo di vent’anni. Da quando ha preso in gestione l’Eurex, Sogin ha realizzato nuovi depositi per le scorie ma non ha ancora proceduto alla solidificazione. Depositi temporanei costosissimi che dovranno essere demoliti». In un paio di occasioni nel sito Eurex si sono verificate contaminazioni di terreno e acqua a causa della fuoriuscita incontrollata di materiale radioattivo dalle vasche. «Fortunatamente – sottolinea Lorini – la contaminazione non ha raggiunto la falda profonda e il campo pozzi dell’acquedotto del Monferrato, che rifornisce una vasta area al di là del Po».

Oltre al Deposito Avogadro presso la Dora, c’è il bunker dove la Sorin Biomedica (ora LivaNova) conserva da decenni materiale radioattivo, oggi con problemi di contenimento, tanto che Arpa ha intensificato i monitoraggi. «Lì accanto – aggiunge Lorini – a seguito di una denuncia presentata dalle associazioni ambientaliste sono stati rinvenuti materiali radioattivi abusivamente interrati. La Procura di Vercelli, nonostante quella sia un’area sorvegliatissima e inaccessibile agli esterni, non ha mai scoperto quando sono stati interrati e da chi». I siti di Trino e Saluggia sono stati considerati inidonei a ospitare materiale radioattivo dalla recente Cnapi di Sogin. Le associazioni ambientaliste lo avevano detto.

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