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A Roma serve una forte «coalizione sociale»

A Roma serve una forte «coalizione sociale» – Eidon

Un'altra città Nella Capitale vanno valorizzate tutte quelle realtà che lottano per i beni comuni. E creare con esse una nuova cultura del cambiamento

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 5 marzo 2015

I contenuti dell’articolo di Sandro Medici sul progressivo degrado culturale della città (Il Sindaco Marino e l’obitorio culturale della Capitale, Il Manifesto del 28 febbraio) trovano oggettivamente riscontro nell’osservazione quotidiana di tanti cittadini, giornalisti, turisti che provano la sensazione che i noti problemi che già conosciamo e viviamo anziché risolversi sprofondano sempre più in una condizione di cronica e «tranquilla normalità».

Roma, a parte la sua bellezza, è città invivibile; per il traffico, per lo stato delle sue strade, per la sporcizia, l’incuria del suo patrimonio, l’abbandono delle sue periferie, l’assenza di una politica organizzata dell’accoglienza. E’ quanto si sente dire da amici e conoscenti: «vorrei andare a vivere in un’altra città». Restano, a far invidia a queste altre città, il clima mite, il bel cielo azzurro e la bellezza (questa un po’ decaduta per la verità), ovvero tutti quegli elementi che abbiamo ereditato o dalla natura o dalla grandezza della storia. Per il resto nessuna amministrazione riesce più nemmeno a mantenere in salute questi beni preziosi; di valorizzarli nemmeno se ne parla. Manca un progetto complessivo della città (quello dei Fori non può essere l’unico), una visione sistemica dei problemi, una passione dei governanti che sappia saper fare un salto di qualità a questa sonnolenta e pigra (e spesso inefficiente) gestione del quotidiano; serve riaprire la porta del futuro rispetto al quale canalizzare le risorse, gli sforzi e le speranze deluse dei cittadini che hanno giustamente scommesso sulla nuova amministrazione.

Una Capitale non può limitarsi a sopravvivere sulla rendita dei gioielli della nonna: Roma vive in una condizione di perenne sovraesposizione delle proprie condizioni (Roma è una bugia è il titolo di un bel libro di Filippo La Porta), come quel tale pieno di debiti e di toppe che gira su una lussuosa auto tanta da farlo ritenere ad una vista non ravvicinata, un ricco signore benestante. Essa deve rinnovarsi a partire, certo, dalla propria tradizione ma per incontrare un futuro possibile che non siano le vecchie risposte come quella di una città cartolina, di una grande scenografia da aggiungersi ad altre nelle guide del touring. Perché succede sempre che ogni Sindaco che si alterna alla guida di questa città mette nel proprio programma elettorale una qualche grande opera che dovrebbe invertire il suo decadente destino. Opera e opere che poi si vanno ad aggiungere a quelle (promesse) dal suo predecessore fino a formare quel cimitero incompiuto, fatto con lo stadio del nuoto a Tor Vergata, le torri all’Eur, l’interminabile nuvola di Fuksas, l’improbabile nuova stazione Tiburtina, il fantasma della metro C che si nota solo per i crateri a cielo aperto che emergono sulle strade della capitale, formando alla fine quasi una seconda città di rovine. Vie semplici ed indolori per il cambiamento non esistono, ma le difficoltà si possono affrontare a partire da quello che già c’è senza farsi tentare da sensazionalismi o da miracolose ricette di marketing (Rome& you ci ha declassato al ruolo di Las Vegas). E quello che già c’è è abbastanza a Roma per avviare una cultura forte del cambiamento.

Ci sono centinaia di esperienze in corso di gruppi, associazioni libere di cittadini, organizzazioni di quartiere, iniziative culturali, di nuove economie, di recupero di orti urbani, di sperimentazioni di forme di autoconsumo e di progetti (tra cui quello dei Fori), come non se ne vedono facilmente in altre città d’Italia e del mondo. Basterebbe allora, anziché vanificarle, per indolenza, pigrizia o negligenza – o addirittura reprimerle -, valorizzarle, inserirle in un progetto culturale e politico che ne moltiplichi la virtuosità; incoraggiarle allargando il loro campo di azione e di consenso e producendo via via comunità attive ed operose di cittadini come risposta anche alla crescente frammentazione sociale e alla mancanza di risorse economiche, oltreché alla tiepida partecipazione alla cosa pubblica. Si può fare? Si può avviare una cultura e una pratica del cambiamento? Per farlo è necessario abbandonare le vecchie risposte della modernizzazione a tutti i costi, dell’innovazione continua, della pratica sciocca dell’imitazione, della facile propaganda, del puntare a un’opera salvifica, per cercare invece risposte nuove a partire da quella della crescente disuguaglianza urbana che vede i cittadini classificati in gironi, gli uni contrapposti agli altri, gli uni nemici degli altri, come fossimo in una guerra continua a difendere invisibili trincee dentro la stessa città. Così come va interrotta quella narrazione che ci parla di una città disincantata e indifferente; narrazione che in realtà costituisce il supporto ideologico per legittimare pratiche e politiche decisioniste e autoritarie.

Per battere la frantumazione degli interessi divergenti che compongono la ragnatela dei conflitti urbani a bassa intensità (si pensi ai recenti episodi di Tor Sapienza, ai Rom, ai senza casa) e quella delle categorie sociali oppresse da una solitudine che si fa sempre più individuale, serve un progetto culturale forte che costruisca una nuova “coalizione sociale” fatta di tutte quelle figure e soggettività disperse e frantumate che vanno dai precari a vario titolo, ai disoccupati, alle associazioni che lottano per il diritto alla città e per i beni comuni, alle associazioni sindacali, agli studenti e a chi il lavoro nemmeno più lo cerca. Un progetto che restituisca lo status di cittadini legittimi a chi, nei fatti, non lo è già più. Un progetto di nuovo welfare urbano basato sulla solidarietà e la reciprocità tra chi gode ancora delle conquiste del vecchio welfare e chi, nei fatti, ne rimane ormai escluso. Non è facile, tantomeno automatico fare questo, ma è quanto ci si aspetta dal Sindaco Marino e la sua Giunta: molti romani già lo fanno spontaneamente e aspettano, per ora ancora fiduciosi, segnali di incoraggiamento.

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