Alias

A Roma l’altro rifugio

A Roma l’altro rifugio

Lgbt Aperta la prima casa di accoglienza italiana

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 7 marzo 2020

In un luogo top-secret della periferia romana, una ex fabbrica ospita un centro per maschi e femmine anagrafici che la sorte ha invertito o moltiplicato nel vasto ventaglio di scelte e sfumature sessuali. Per ragioni chimiche o genetiche o culturali. Magari per l’insieme di tali ragioni e per altri insondabili motivi che espandono la complessità umana e le infinite combinazioni in Natura. Natura significa Vita, «fondamento dell’esistenza nella sua configurazione fisica e nel suo divenire biologico» recita il dizionario: forze e meraviglie e segreti della Natura. Sempre antica e sempre nuova, come la irripetibilità di ogni singola creatura animale o vegetale…

Refuge Lgbt
È il primo luogo del genere nel Belpaese (sulla sua scia è nata in questi ultimi mesi la Casa Arcobaleno a Milano), denominato alla francese RefugeLgbt, in omaggio alla realtà d’Oltralpe dove queste case d’accoglienza sono oltre quaranta e vantano un ombrello normativo più avanzato. Il centro offre protezione e sostegno articolato (psicopedagogico, sanitario, formativo, relazionale, lavorativo…) a giovani tra 18 e 26 anni provenienti da tutt’Italia, in fuga dal comune repertorio delle umane crudeltà. Hanno bisogno di massima tutela, vanno salvaguardati da familiari o altri imbecilli e malintenzionati, perciò nomi ufficiali e volti e provenienze di coloro a cui accenneremo sono omessi.
Promosso insieme ad altri soggetti preziosi tipo la Chiesa Valdese, il rifugio è gestito da Gay Center e Croce Rossa Italiana. Lesbiche, gay, bisex, trans ed altre forme nelle innumerevoli propensioni alla sessualità. Nella nostra e in tutte le specie animali, come illustra in chiave divertente lo scienziato inglese Adam Rutheford nel recente libro Umani (Bollati Boringhieri). Sono le minoranze differenti, gli spezzoni di popolo presenti alle manifestazioni Pride che affollano le piazze planetarie, quelli che mettono in scena la realtà profonda e celata dell’universo variopinto. Poiché chi lo vuole monocolore imprigiona sé stesso nella monodimensione. Di cervello e di cuore. Di visuale e di vita.

Paola e Sonia
A ricevermi nella sede -dopo le necessarie precauzioni sul cronista sconosciuto- sono Antonio Crialesi (CRI) e Sonia (GC). Le camere degli ospiti sono spaziose, le aree comuni pure, invidiabile una grande terrazza dove il tramonto capitolino dipinge squarci stupefacenti. La Croce Rossa qui ha sei operatori h24 che si danno cura con sollecitudine. Osservo i manifesti affissi alle pareti, leggo i turni per cucina, lavanderia, pulizia; intanto facce adolescenti vagano interrogando mute il visitatore canuto, mentre una bambina sul divano gioca e disegna: è Angelica, di nome e di fatto, figlia ridente di Sonia, nel frattempo raggiunta dalla partner Paola, reduce dal suo impiego in una società assicurativa.

Gli ospiti possono stare al Refuge sei mesi, una regola flessibile, ragionata sui singoli casi, ma organica a persone che quest’ambiente caloroso fa maturare in fretta e che ambiscono all’autonomia esistenziale. Tempo addietro gli ospiti del momento scrissero una lettera collettiva: «siamo stati picchiati, derisi, offesi, violentati, odiati… siamo fuggiti al pari di chi vive nei regimi che non rispettano i diritti umani… siamo come migranti che cercano di essere conosciuti e riconosciuti… siamo quelli che nessuno vuole guardare». Nel solo 2019 le vittime di sessuofobia che hanno contattato la Gay Help Line (800713713, novanta operatori volontari) o comunicato via chat sul sito speakly.org ammontano a 260.000; almeno 400 di essi hanno subito violenza fisica (anche da genitori, fratelli, parenti), mentre sono un permanente stillicidio gli episodi di bullismo. Chi ha animo robusto e aiuto adeguato esce dall’ombra, tesse relazioni, costruisce pezzi di emancipazione. Ma chi ha perso ogni frammento di fiducia nei suoi simili, sovente fugge dall’intolleranza finendo nei margini sociali, e se non è sufficientemente vigile, è facilmente preda di devianza e ulteriore emarginazione. «Oggi però -sostiene Paola- le generazioni più giovani fanno meno fatica ad esternare e far riconoscere la propria identità sessuale; io ho 43 anni, sono nata in Ciociaria, sono lesbica, quando avevo 15/16 anni non era facile esporsi, non c’era neppure un numero telefonico da chiamare né qui c’era ancora stato un Gay Pride, turbe e sentimenti erano chiusi in me senza possibilità di confronto, di elaborazione, solo venendo a Roma per l’università la situazione è mutata: oggi c’è maggiore sensibilità generale… Certo molto dipende dalla famiglia, dal contesto in cui cresci, dal luogo di provenienza, grande città o provincia… nei posti di lavoro estremamente maschilisti o religiosi nascondere la propria diversità sessuale è la regola… E se l’omofobia è un fatto grave, ancora più lo è la transfobia, per questo a novembre c’è una giornata internazionale per ricordare le sue vittime…”

Esorcismo e affettività
Stereotipi e tare mentali addormentano la ragione, producono mostri e vigliaccheria: non solo aggressioni e pestaggi sulla pubblica via, ma ostilità e dileggio sul web (talvolta promossi o avallati da personaggi con pubbliche responsabilità), feroci repressioni e reclusioni in famiglia, violenze psicologiche ripetute, disistima e discredito costanti, ferite radicali subite nello spirito. Fenomeni che pervadono in guisa trasversale censi e classi, ceti altolocati e masse popolari, benestanti e malestanti. Sonia si dedica interamente a questi temi, è l’oggetto del suo lavoro professionale come mediatrice nel Gay center, collaboratrice Oscad (Osservatorio contro le Discriminazioni), formatrice nelle scuole e all’università; mi spiazza affermando che la madre è la testa d’ariete familiare nel reprimere le tendenze sessuali fuori ordinanza: «è un dato statistico, è la madre la più attiva, teme di non poter diventare nonna, ti ricatta moralmente, ti dice che rimarrai sola/o tutta la vita, che morirai come un cane… nei casi di minori trattati con evidente illegalità si interviene con l’Oscad, come un ragazzino al quale bruciavano i piedi con la fiamma perché gay, un altro di 14 anni vessato notte e giorno dal padre poliziotto… C’è anche chi viene sottoposto a esorcismi vari, sdraiato sul lettino, ritualizzato, anche se maggiorenne; oppure chi viene legato, immobilizzato e colpito, molti non lo denunciano per timore del peggio… Sono situazioni limite, noi tentiamo sempre di ristabilire un dialogo con la famiglia d’origine, di invitare alla riflessione approfondita sull’affettività di ognuno, e nell’80% dei casi questo lavoro di riconnessione ha successo, le ostilità svaniscono, ci si comprende o almeno ci si rispetta, qualcuno torna anche a casa».

Testimonianze
Quando il paese è piccolo e la gente mormora, l’aria si fa irrespirabile per i differenti: Francesco è gay, ha 21 anni, barba prosperosa e folta chioma a proteggere uno sguardo timido. Nel 2019 ha abbandonato il paesello e raggiunto Roma; è stato per un po’ all’addiaccio «vivendo coi barboni, lavandomi alle fontanelle, mangiando alle mense dei poveri»; fin da bambino giocava con le bambole ma i genitori gli urlavano «che i maschietti non devono farlo», però a lui «si rizzava coi maschi, mica con le femminucce». Racconta che non ce la faceva più, il suo vissuto emozionale non si poteva esprimere, occhi e dita giudicanti lo ingabbiavano, era talmente impaurito sul piano relazionale che persino dopo aver contattato il Gay center scappava, spariva: l’ha ricontattato più volte prima di affrontare un percorso di orientamento, socializzazione, superamento del terrore; ora pratica il mestiere che gli piace, parrucchiere per signora, 600 euro al mese.

Andrea è un maschio nato in sembianze femminili, il caschetto di capelli striati di verde, un timbro di voce finalmente corrispondente alle sue propensioni intime: «L’anno scorso sono diventato maggiorenne, e da quel giorno non sono più tornato a casa… ho sempre sentito il disagio del mio corpo, già da piccolissimo preferivo giocare coi maschietti, con l’adolescenza era lampante che i miei sentimenti non erano esattamente femminili… i miei avevano divorziato, mia madre è una persona di estrema destra (ma anche tanti a sinistra dicono a parole di essere più aperti, poi in realtà non lo sono…), diceva che per lei è umiliante la mia inclinazione, le rovinavo la vita, preferiva non avermi fra le palle». Andrea ha sofferto di ansia e depressione, abbandonato la scuola, rimediato una macchina da cucire: intende occuparsi di sartoria, gli piace «l’artigianato manuale, ricamare, avere un pezzo di stoffa tra le mani e creare qualcosa dal nulla».

Giuseppe è nato 19 anni fa, ha doppia identità di genere (maschile-femminile) con preferenze omosessuali, una sorella lesbica e altri fratelli, una flebile voce gentile, madre italiana casalinga e padre magrebino musulmano, «molto religioso, persona autoritaria, il classico padre-padrone, molto ostile verso la comunità lgbt… Io da sempre mi sento quel che sono, da bambino mi piacevano i giochi femminili, trovavo i discorsi dei maschi piuttosto stupidi e infantili, preferivo la compagnia delle bambine, avevo il mito dei cartoni animati e giocando fingevo di fare la principessa o la ragazza coi superpoteri o una bimba in pericolo salvata dal principe azzurro…»

Oscurare i bagliori della differenza in una vita già abbastanza oscura di suo, è un crimine. Informare e stimolare l’attenzione verso le specificità del singolo è il passo pregiudiziale affinché vi sia un salto di civiltà fra gli individui. Le differenze e le mescolanze sono ricchezze liberatorie, non inquinamenti patologici. Nel rispetto e nel riguardo di ciascuno.

Sonia lo fa nelle scuole (una richiesta è giunta ultimamente persino da una elementare) e in un Master universitario sull’Educazione all’affettività: «Lezioni sulla comunità lgbt e sull’attenzione alla persona perlustrando la storia individuale, cercando empaticamente di capirne status e bisogni. Alle lezioni invito qualcuno/a della comunità che parla di sé e si confronta con tabù e fobie degli altri, i quali alla fine stupiscono nel vedere che i diversi sono persone normali… Ed ecco la mia storia: premesso che non cambierei mai mia madre con un’altra, non posso dimenticare quando mi disse ‘avrei preferito abortire piuttosto che avere una figlia lesbica’. Avevo 25 anni, fu un colpo tremendo, pensai che non potevo permettermi di essere lesbica, quindi obbedii: ho trovato un uomo con una grossa componente femminile, mi sono sposata, facendo tutti contenti e partorendo una bambina… Poi in lui sono insorte diffidenze che l’hanno allontanato, non voleva più toccarmi, abbiamo cominciato ad avere solo rapporti fraterni, il matrimonio è finito… Ha conosciuto Paola, abbiamo accettato la nostra condizione per il benessere di ognuno, confrontandoci tanto, dicendoci tutto, proprio tutto, anche l’indicibile…»

*l’autore ringrazia per la cortese collaborazione Debora Diodati presidente CRI di Roma, Laura Bastianetto, Thomas Stalletti

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento