A Roma il jazz è un codice aperto
Musica Chiusa la quindicesima edizione della manifestazione capitolina, un programma ricco di spunti e riferimenti sulle nuove tendenze
Musica Chiusa la quindicesima edizione della manifestazione capitolina, un programma ricco di spunti e riferimenti sulle nuove tendenze
Il Roma Jazz Festival si è concluso il 21 novembre confermando la propria chiave di lettura del jazz come “codice aperto”. Tale aspetto programmatico-artistico viene pienamente in luce confrontando due tra le sue ultime performance: il trio del pianista indoamericano Vijay Iyer e il quartetto del tubista caraibico-britannico Theon Cross. La sala Sinopoli (Parco della Musica, sede principale del RJF) è una splendida e ariosa sala da concerto, mentre il Monk (erede de La Palma, nell’area postindustriale del quartiere Portonaccio) offre uno spazio al chiuso rettangolare, focalizzato su un palco di medie dimensioni arricchito da un efficace gioco di luci. Il trio di Vijay Iyer (con la ricettiva e sensibile Linda May Han Oh al contrabbasso e il creativo ed anticonvenzionale Tyshawn Sorey alla batteria) ha trovato nella Sinopoli lo spazio adeguato per una musica che appare sì come “jazz da camera” ma veicola ed esprime una serie di tensioni e urgenze tutt’altro che accademiche. Per il vulcanico e adrenalico Cross – una vera stella della scena sonora “off” londinese – l’atmosfera clubbistica e underground del Monk si è subito configurata come luogo “naturale” per la performance del suo quartetto (con sax tenore, Chelsea Carmichael; chitarra elettrica, Nikos Ziarkas; Patrick Boyke, batteria).
I LUOGHI POSTULANO, anche, i pubblici, in un rapporto di riconoscimento-identità che andrebbe indagato. Così il Parco della Musica ha visto soprattutto spettatori di età più che media insieme ad una frangia più giovane, interessata a linguaggi innovativi e di confine come quelli che l’Iyer pianista-leader-compositore indaga da almeno un decennio. Al Monk dominante è stata, invece, la presenza giovanile, dall’atteggiamento non formale: bar aperto, via vai di bicchieri anche se massima attenzione e coinvolgimento sono scattati non appena il Theon Cross quartet ha attaccato. Musica elettro-acustica dai tratti ora evocativi ora ritmicamente aggressivi. In questo senso il tubista si è imposto – quasi fisicamente e di sicuro sonoramente – con il suo strumento, coniugando una travolgente funzione cinetica a spazi solistici che trasformano l’imponente tuba in un agile ottone al pari di un flicorno. Iyer e il suo trio hanno forzato la dimensione raccolta e, in effetti, cameristica del loro ultimo album Uneasy (ECM), pur rimanendo nella dimensione del “concerto jazz”, con pubblico e platea in ruoli ben distinti; il pianista li ha stemperati presentando la band e motivando la sua musica in un periodo ancora pandemico, con tutte le incertezze e le difficoltà che ha comportato e comporta.
GRAN PARTE del repertorio, comunque, proviene da Uneasy: l’intenso e meditativo Children of Flint, il sospeso Augury, la macerata title-track, il toccante Touba, una stralunata versione di Night and Day e un magnifico brano di Geri Allen (Drummer’s Song), usato come bis. Dal canto suo Theon Cross ha pescato nell’ultimo album (Intra-I, New Soil) lavorando sulla contrapposizione/integrazione fra lunghe linee di sax tenore e i fraseggi serrati della tuba, le sonorità elettriche-elettroniche della chitarra e la scansione “hard” della batteria. Pezzi che parlano direttamente al corpo, unendo ritmi caraibici a sonorità ultrafunk ma senza revivalismi, piuttosto con la cruda e intensa vitalità di un presente angoscioso.
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