Il decreto 53 del 9 febbraio del MiC, che rimodula l’organizzazione e il funzionamento dei musei statali, consegna l’amministrazione del Museo degli strumenti musicali al Museo delle Civiltà. Un’istituzione abbozzata nel 2016 – e da allora in continua definizione – che, edificata sulle collezioni etnografiche e preistoriche raccolte da Luigi Pigorini, parla anche di mineralogia e di tradizioni, alte e basse: del Novecento, dell’Alto medioevo, dell’Oriente. Con il lancio del Museo delle opacità, inoltre, coltiva l’ambizione di intavolare una discussione condivisa intorno ai materiali provenienti dall’ex museo coloniale.

SE CHIARA APPARIVA la narrazione antropologica con la quale il compianto Filippo Maria Gambari sperava di tenere unito il tutto, ormai è una torre di Babele. Tanto che, con una lettera aperta del 7 marzo, l’Associazione Bianchi Bandinelli ha sentito il bisogno di ammonire il direttore Andrea Viliani su criticità nella gestione del museo segnalate da un documento sindacale dell’8 febbraio, in merito al «processo di progressiva e radicale revisione che metterebbe in discussione, provando a riscriverle, la sua storia, la sua ideologia istituzionale e le sue metodologie di ricerca e pedagogiche».

SECONDO RITA PARIS, archeologa e presidente dell’associazione, costituisce un problema il ricorso estenuante e ansioso a opere d’arte contemporanea – comprate sul mercato – che comporta il rischio di «annebbiare pericolosamente l’identità e la specializzazione scientifica di importanti collezioni fortemente e diversamente connotate». Se la capacità di analisi di professionisti selezionati con concorsi pubblici viene sfumata nel ’dialogo con il contemporaneo’ – al quale per altro non mancano a Roma spazi riservati – cosa resta di quello sguardo antropologico di cui il visitatore avrebbe bisogno per affacciarsi sulle «civiltà» che è chiamato a scoprire? Il sospetto è che si ritrovi senza filtri nel mezzo di una wunderkammer in salsa postmoderna da percepire emotivamente, più che da comprendere.
In questa direzione pare puntare il decreto che, di fatto, avvia l’accorpamento al Muciv del Museo degli strumenti musicali: un istituto non autonomo diretto dall’architetta Sonia Martone, che ha sede nel complesso di Santa Croce in Gerusalemme.

COME SI LEGGE nella petizione rivolta al ministro Sangiuliano dalla piattaforma change.org, il museo «non è un contenitore di oggetti etnoantropologici ma espressione del pensiero musicale». Sottoporlo a un altro istituto, lontano nella concezione e nello spazio, ne svilirebbe il senso proprio quando ha riaperto regolarmente al pubblico.
Inaugurato nel 1974, il museo ha il suo nucleo originario nei reperti della collezione creata dal tenore Evangelista Gorga, acquisiti dallo Stato nel 1949. In seguito, la raccolta si è impreziosita con strumenti straordinari per raccontare criticamente l’evoluzione della cultura musicale: il pianoforte di Palazzo Torlonia; il violino di Andrea Amati; l’arpa Barberini; settanta bassi affidati in comodato d’uso da Pablo Echaurren, che dichiara al manifesto di riservarsi il diritto di rivedere la sua generosità qualora il museo non fosse più in grado di garantire un adeguato allestimento. Cosa potrebbe dire al visitatore un basso fuori contesto, anche se un Gibson del 1953? Il dramma sta nell’impostazione: pensarsi egemonia culturale e, nel mentre, confondere la musicologia con una compilation di cimeli.