Visioni

A Rennes mille sfumature di musica

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Festival Si dimostrano ancora una volta vincenti «Les Rencontres Transmusicales» della città bretone, grazie a una parata di quasi cento talenti provenienti da 29 differenti paesi. Sui palchi del Parc Expo e dei club coinvolti i suoni caldi dei Songhoy Blues, i Vaudou Game e il collettivo brasiliano dei Fumaça Preta

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 10 dicembre 2014

È terminata domenica la trentaseiesima edizione dello storico festival Les Rencontres Transmusicales di Rennes. La kermesse bretone ha mostrato ancora una volta freschezza e lungimiranza; le stesse con cui ha saputo evolversi in questo decennio da raduno affollato di grandi nomi a parata di talenti di nuova generazione. Un percorso imposto dalle necessità del low cost imperante, trasformato in virtù anche attraverso l’espansione geografica degli inviti. Mai prima d’ora, infatti, si erano incontrati sui palchi del Parc Expo e dei club coinvolti nel cartellone nomi, circa 100, provenienti da 29 paesi differenti. Con il relativo aumento di sfumature, linguaggi, mondi a confronto. Non è un caso che alcune delle sensazioni più forti vissute in Bretagna siano giunte dal Sud del pianeta. Lanciati da Damon Albarn, i Songhoy Blues hanno aperto le danze venerdì sul palco principale esprimendo con energia una storia importante, come spiega dal palco Aliou Touré, il cantante: «Siamo del nord del Mali, Gao e Timbuctu. Dopo l’invasione jihadista siamo scappati a Bamako, dove ci siamo conosciuti a un matrimonio. Così la nostra è musica di festa». Il loro blues rock è solido e lui, il cantante, balla la liberazione dalla censura.

Alla ricerca di giovani non solo tra gli artisti, il festival ha una piccola sezione riservata ai bambini tra gli 8 e i 14 anni. È significativo che tra i tre gruppi scelti per quest’azione educational ci siano i Vaudou Game, band parigina fondata e guidata dal togolese Peter Solo, che la sera all’Expo prosegue, tra funky serrato e afrobeat, nell’opera divulgativa: «Nel mio paese vive una cultura che si chiama vudù ed è da sempre legata alla natura. Per me oggi vudù vuol dire rispetto per l’acqua, per la vita, per la terra, per le persone». La pensa così anche il papà di Peter, Roger Damawuzan, personaggio cult della musica del Togo a inizio anni ’70 che raggiunge la band vestito di bianco e molleggiato come un Celentano di Lomé. Il terzo giovane del continente che sbanca il tavolo è Tumi Mogorosi, batterista sudafricano residente a Londra che presenta il suo ELO Project, un organico da squadra di calcio: quattro coristi, tre fiati, contrabbasso, chitarra e le sue pelli. Tanto jazz, qualche assolo un po’ edulcorato, ma su tutto la carica del leader che rimanda inevitabilmente a Louis Moholo.

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Componente consolidata nella trama del festival è quella del Brasile, molto atteso con due nomi già nel mirino della critica. I Metá Metá sono chiamati a trasformare in live lo spirito di un secondo disco intitolato, neanche poi troppo provocatoriamente, Metal Metal. Ci riescono, per l’appunto, a metà: a volte la scena si accende di afro samba, jazz aspro e visioni ardite, in altri passaggi la situazione langue e il mélange viene salvato dalla sontuosa voce aggiunta di Juçara Marçal. Più spigliati e continui, ma anche avvantaggiati dall’ora tarda in cui il pubblico diventa giocoforza più disponibile, appaiono i Fumaça Preta, collettivo nato nel solco del Tropicalismo con Os Mutantes come riferimento (fin troppo) esplicito. Intorno al progetto, Alex Figueira, portoghese residente ad Amsterdam, ha costruito una band agile ed efficace nel muoversi tra sensazioni vintage e decelerazioni dub, perfetta per rimbalzare verso il gran finale dance, classico del sabato ai Transmusicales.

Ci sono due nomi italiani a tenere in pugno la sala: Clap! Clap!, ovvero Cristiano Crisci, ipnotizza; i Ninos Do Brasil, marchio dance di Nico Vascellari e Nicolò Fortuni, affondano colpi selvaggi. Per la buonanotte arriva la piccola, grande idea con cui Brian Shimkovitz sta facendo il giro del mondo: Awesome Tapes From Africa è l’ormai rodato set di sole cassette audio in cui fonde la passione dell’etnomusicologo al temperamento del dj, muovendosi tra radure di ethio-jazz, botte di soukous, incisioni di buon livello e materiale al limite della ricerca sul campo.

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Molto altro si è sentito nei cinque giorni di festival. Due set spiazzanti: quello dei coreani Jambinai è un viaggio folk stoner tra strumenti elettrici e tradizionali; e suona schietto il rock’n’roll del Bosforo virato Stooges dei turchi The Ringo Jets. Kurtis Harding, pupillo di Cee – Lo Green, ha portato da Atlanta un soul di ottima grana, così come ha fatto breccia tra i più giovani la presenza acqua, sapone e rap dell’inglese Kate Tempest, fedele al nome di battaglia. Né hanno deluso i due artisti di fatto più attesi di questo programma senza leader precisi: in ambito rock, l’australiana Courtney Barnett ha espresso al una propensione psichedelica e showgaze persino sacrificata in dischi e video, mentre in casa elettronica il francese Rone ha incrementato l’attesa per l’album in uscita a febbraio, rivelando che tra le voci ospiti ci sarà anche quella della star d’oltralpe Etienne Daho.

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