«A Praga crescono i ’perdenti’ della transizione post-comunista»
Intervista Parla Stanislav Stech, vicedirettore dell'Università «Carlo»
Intervista Parla Stanislav Stech, vicedirettore dell'Università «Carlo»
A un quarto di secolo dalla Caduta del Muro di Berlino aumenta il numero di coloro, che si considerano i perdenti della trasformazione post-comunista. È il bilancio che traccia Stanislav Stech, vicerettore dell’Università di Carlo, la più grande della Repubblica Ceca, e tra le più note figure della sinistra intelletuale.
Le piazze di Praga si dividono nell’anniversario della Rivoluzione di Velluto tra chi vede al comando sempre i quadri intermedi comunisti; e chi protesta contro la nuova politica sociale, economica ed estera. Che malcontento è?
Esiste una spaccatura profonda nella società ceca. Secondo la prima interpretazione gli attuali problemi sarebbero causati dal perdurare di alcuni elementi strutturali della precedente società o dal fatto, che in politica e in economia sono attivi personaggi con trascorsi nel Partito comunista. È una visione semplicistica, che non considera le profonde trasformazioni in campo economico e sociale avvenute dopo il 1989. Dall’altra parte c’è il campo di coloro, che si sentono in qualche modo perdenti della trasformazione, che ha portato con sé una profonda stratificazione sociale e alla crescita delle diseguaglianze.
Perché la disillusione è ormai visibile?
Un ruolo importante l’hanno assunto le diseguaglianze nelle distribuzione del potere e dei mezzi economici, che sono aumentate in questi anni. Inoltre si sono uniti a questo campo molti giovani, che hanno uno sguardo più critico della società, portando con sé anche nuove esperienze di mobilitazione e di azione politica e sociale. Spesso a queste persone viene mossa la critica di preferire i loro bisogni materiali alla libertà. Io la considera una critica ingiusta, perchè dà risalto soltanto ai valori di una parte specifica della popolazione. Infatti per chi sta in una condizione di difficoltà economica, il concetto di libertà si riduce alla decisione se prendere o meno un nuovo lavoro per poter arrivare alla fine del mese.
Tra i simboli della Rivoluzione di Velluto c’è la figura di Vaclav Havel. Come la valuta?
La figura di Havel è da molti sopravvalutata, in quanto durante la transizione non ha avuto un potere reale. Tuttavia la sua statura simbolica ha dato copertura all’operato neoliberista di Vaclav Klaus. Di Havel ho apprezzato la sua critica verso l’onnipotenza del denaro, la sua fede, perfino utopista, nei diritti umani o nell’organizzazione della società civile. Il tutto controbilanciato da una serie di valutazioni negative. Havel non ha mantenuto molte sue promesse, come quella di sciogliere entrambi i blocchi, e non solo il Patto di Varsavia, oppure il suo avallo ai vari bombardamenti umanitari o alle spedizioni militari.
Buona parte della sinistra europea guardava alla transizione con la speranza, che a Est si trovasse una terza via tra il capitalismo e il socialismo di stato. Era malriposta?
Sentivo molto intensamente questa speranza da parte dei miei amici italiani e francesi, che sono per metà comunisti e per altra metà vicini ad altre correnti della sinistra. All’inizio le speranze non erano malriposte, poiché c’erano diversi gruppi che lavoravano ad altri scenari di transizione, basti pensare a circoli intorno a Petr Pithart o agli uomini della Primavera di Praga. Ma la visione neoliberista portata avanti da Vaclav Klaus si è imposta con estrema forza e velocità.
Perché la pervasività delle idee neoliberiste?
Vaclav Klaus ha saputo conquistarsi un certo sostegno popolare affermando di «aver la ricetta per diventare in cinque anni come l’Austria». Allora non c’erano voci forti, che avvertissero dei pericoli di cui è portatore il neoliberismo. Perciò i neoliberisti non si sono dovuti scontrare negli anni Novanta con critiche forti e Klaus, da primo ministro, ha portato una politica che tutto sommato all’inizio non faceva troppo male alla gente. Infine queste politiche sono state avvallate anche da organismi internazionali facendo così credere che la strada imboccata fosse quella giusta.
Oggi quei partiti di destra che hanno incarnato la transizione verso il capitalismo, sono in profonda crisi e raccolgono un quarto dei voti…
Siamo testimoni di una crisi profonda. E dispiace che di fronte a questa crisi non emerga un’alternativa forte di sinistra. Anche i social-democratici appaiono come la versione solo «più amica del popolo» della destra. E così lo sbocco della crisi consiste nel rafforzamento di movimenti capitanati da oligarchi e nella depoliticizzazione rappresentata dai vari «esperti al governo», che non sono indipendenti ma fortemente ideologici e interessati. Temo che la destra ritorni in queste nuove, e forse ancora peggiori, vesti.
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