Una bella sorpresa nel programma piuttosto anemico della Biennale teatro di quest’anno, l’ultimo diretto da Ricci e Forte, tra spettacoli già visti e diradati. Fortunatamente Amir Reza Koohestani è un artista tanto «forte» quanto a suo modo «pudico». I suoi spettacoli, sospesi tra teatro e danza, hanno una loro forma semplice, davvero quasi «discreta», ma agitano sentimenti molto forti nello spettatore che vi assiste. Da tempo allontanatosi (per motivi facilmente immaginabili) dall’originario Iran, continua a proporcene amare rappresentazioni lì radicate, con messaggi politicamente molto forti, affidati però a visioni e passi di danza semplici e discreti. Dopo una rivelazione alle Vie modenesi di qualche anno fa, con una danza che si metteva in gioco sui bordi di un «bicchiere», abbiamo ammirato attraverso la sua rielaborazione drammaturgica le traversie di un eterno passaggio di frontiera ostacolato dalla «burocrazia» poliziesca.Il fantasma della dittatura iraniana dietro la vicenda di due coppie

ORA ALLA BIENNALE TEATRO di quest’anno ha appena mostrato la necessità, e la forza e la sfida, di una corsa fuggitiva nel cuore della terra, sempre alla rincorsa di una «libertà» che ogni volta si allontana e si fa più difficile da raggiungere, o almeno lambire.
Blind runner, «il corridore cieco», è il titolo della performance. Che intreccia le storie di due «coppie»: la prima di due maratoneti, un uomo e una donna, che si allenano in coppia in Iran, e poi la coppia che lui andrà a formare, come trainer, con un’altra donna «in fuga reale». In una localizzazione precisa, e non meno significativa, un luogo topico di fuga per ogni migrazione: il canale sotto la Manica che porta da Calais in Gran Bretagna, che quest’altra donna deve assolutamente superare.

QUELLA È LA SFIDA, di migranti e di coscienza, che lui e lei danzanti compiono, in una serie di flash che fanno tenere il fiato anche al pubblico. Perché bisogna tenere il passo con la realtà, e quella meta deve essere raggiunta e superata in un tempo notturno che va a scadere, sei ore, quando altrimenti si verrebbe sbriciolati dal primo treno dell’alba che riprende il collegamento tra le due stazioni di partenza e arrivo di quel tunnel. Sfida sovrumana alla modernità e alla forza meccanica del «progresso», che pure può comprimere aneliti e diritti fondamentali dell’essere umano. Quel viaggio, quei passi di danza discreti e struggenti delle due creature sulla scena, divengono per lo spettatore una sorta di rilevatore cardiaco, appeso da una parte al sogno di libertà e dall’altra raffreddato dall’ordinamento che tutti ci avvolge e coinvolge e determina. Uno spettacolo semplice, eppure densissimo, come Koohestani del resto ci ha abituato.

È RARO che una performance di un’ora di passi danzati assommi in termini così netti e davvero inappellabili un nodo esistenziale e politico così avviluppato. Da quelle ombre si sprigionano i fantasmi delle vittime di quel regime, delle donne massacrate per non aver coperto il capo e degli uomini che non si prestano a punirle o a fare i guardiani di quella che viene chiamata «rivoluzione».
Lo sdoppiamento della stessa danzatrice in due creature femminili, vittime ed entrambe fortissime, scivolando con grazia nei passi, entra nella leggenda della comunicazione di quel dolore. Che non si arrende però, e ci chiama alla solidarietà, spettatori ma non più solamente tali. Sulla delicatezza aggraziata di quei passi, che possano portare lontano, e aldilà dei mari, un paese di millenaria civiltà.