A Milano il passato e il futuro degli Iron Maiden
Sul deserto rovente dell’Ippodromo San Siro di Milano cala infine il sole, concedendo l’ombra prima troppo avara alle oltre trentamila persone presenti in quell’arido, piano sabbione. Persone riarse, costrette per dissetarsi a pagare per l’acqua prezzi ingenerosi, un liquido più che necessario che con quel calore apocalittico avrebbe dovuto essere gratuito come l’anno scorso a Bologna, dove il concerto degli Iron Maiden fu annullato per le condizioni atmosferiche estreme. Scendono le ombre (ma arrivano ingorde di sangue nuvole di zanzare) e la band inglese sale sul palco puntuale, introdotta da Doctor, Doctor degli Ufo e dalla musica per Blade Runner di Vangelis che si coniuga a Caught Somewhere in Time. Allora con quei suoni così potenti, fantascientifici quanto ancestrali, risulta naturale dimenticare il vago disagio delle ore precedenti: la musica poco metallica e interessante dei Blind Channel, quella raramente affascinante e fin troppo ridondante degli Epica che funzionerebbe tuttavia bene in un videogioco fantasy, la parziale defezione degli Stratovarius che hanno potuto suonare solo Black Diamond (in parte senza la voce di Timo Kotipelko per un microfono mal funzionante) e Haunting High and Low a causa del ritardo accumulato per guasti meccanici e scioperi.
ARRIVANO gli Iron Maiden e non importa più nulla, astratti dal potere della loro musica, dal carisma stellare dei musicisti, dalla voce straordinaria e ancora così giovane di Bruce Dickinson vestito di un grigio, strambo abito che solo addosso al cantante non risulterebbe bizzarro, se non ridicolo. La musica, nella corrispondenza amorosa e appassionata tra pubblico ed esecutori, alimenta la rimozione di ogni trascorsa noia e per migliaia va in scena uno spettacolo davvero suggestivo e trascinante malgrado un volume purtroppo meno eccessivo di quanto quei suoni meriterebbero, un concerto eccezionale dalla scaletta non banale, ragionata e concettuale, una riflessione sul tempo e i sui tempi, eseguita con una maestria, un virtuosismo e un talento scenico che sono mostruosi e meravigliosi come il cadaverico Eddie simbolo della band.
DEDICATO soprattutto all’ultimo Senjutsu e a Somewhere in Time del 1986, The Future Past Tour trascorre con forza crescente brano dopo brano, dall’heinleniana Stranger in a Strangeland alle disperate e allegoriche riflessioni sul presente di Writing on the Wall, dalla riuscita successione di Days of Future Past e Time Machine che sfocia nella bellissima sorpresa di The Prisoner tratta da The Number of the Beast. I popoli possono essere massacrati, fino al genocidio, ma la loro cultura sopravvive all’estinzione dice al pubblico Bruce Dickinson prima di Death of The Celts, alla quale seguono Can I Play with Madness e Heaven Can Wait per alimentare il rito collettivo dell’epica storico-metallara di Alexander the Great, mai eseguita prima dal vivo, e subito dopo con una ritmica emozionale implacabile ecco Fear of the Dark e Iron Maiden. C’è tempo ancora per la lunga e cupa Hell on Earth e per la classica The Trooper; conclude in una maniera quasi straziante Wasted Years, l’ingannevole ricerca del tempo perduto che è annullamento di un presente sprecato nella nostalgica meditazione sul passato. Dopo queste canzoni così singolari e travolgenti, eseguite da una band che con la malia del loro spettacolare rigore ci illude di essere una delle più grandi della storia e forse lo è davvero, una cosa è invece certa: non è mai sprecato come gli anni ai quali allude Wasted Years, quel tempo che trascorre risuonando, il tempo che è Musica.
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