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A Londra la primavera del grande scontento

A Londra la primavera del grande scontentoUna sostenitrice del Labour a una manifestazione elettorale – Lapresse/Reuters

Elezioni 2015 Alla vigilia del voto tutti scommettono sul crollo del bipartitismo. Secondo i sondaggi, Tory primo partito ma possibile governo Lib-Lab con l'appoggio esterno degli scozzesi

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 6 maggio 2015

Cosa succederà dopo le elezioni inglesi del 7 maggio? Le probabilità sono a favore di un accordo fra laburisti e liberaldemocratici con l’appoggio esterno degli eletti scozzesi.

La cosa che colpisce di queste elezioni è che mentre i sondaggi sembrano aver chiarito la distribuzione dei voti fra i contendenti, non vi è alcuna certezza sullo sbocco governativo. Questo succede perché, in maniera inattesa per un paese che non prevede la rappresentanza proporzionale, ci saranno, probabilmente, diversi attori coinvolti nel processo di formazione del nuovo governo, a partire dalla sera di giovedì 7 maggio.

I partiti laburisti e conservatori, per decenni i due monoliti che si sono scambiati periodicamente il potere, sono praticamente testa a testa, con circa il 33-35% dei voti ciascuno. Questo significa che nessuno dei due avrà abbastanza deputati per godere della maggioranza assoluta in Parlamento. Certo, qualcosa di simile era già successo alle ultime elezioni, ma questa volta tutto è molto più complicato.

In primo luogo, sembra chiaro che il Labour sarà quasi annientato in Scozia.

Alcuni sondaggi dicono addirittura che non riuscirà a conquistare nemmeno un seggio in quella terra. Si tratta di un dato drammatico e basta dare un’occhiata anche al recente passato per capire il perché. La Scozia è sempre stata il cuore forte e robusto del Labour e aveva regolarmente consegnato decine di parlamentari laburisti a Westminster. Erano ben 41 nel Parlamento che va a scadenza in questi giorni. Questa volta Milliband sarà forse fortunato se ne manterrà un pugno. Abbiamo assistito a uno spostamento massiccio, da parte di chi votava Labour verso lo Scottish National Party (SNP). E possiamo valutare questo fatto come uno degli effetti collaterali del referendum sull’indipendenza scozzese dello scorso anno.

Dopo la sconfitta dei sostenitori dell’indipendenza, lo SNP ha visto crescere il proprio consenso, grazie anche all’atteggiamento dei Tories che hanno subito cominciato a dire che solo i parlamentari inglesi potevano votare su questioni riguardanti l’Inghilterra. E i conservatori hanno fatto anche di più: hanno cercato di spaventare gli elettori sostenendo che un governo di coalizione fra laburisti e nazionalisti scozzesi sarebbe stato una minaccia per l’integrità del paese.

Ma raffigurare lo SNP come l’incarnazione del diavolo si è rivelato un boomerang politico perché ha dato nuova linfa a chi lo sostiene. La leader dello SNP, Nicola Sturgeon, ha poi deliberatamente incoraggiato questo processo, proclamando che lei sarà effettivamente favorevole a governare il paese in coalizione con il Labour. In questo modo rassicura gli elettori laburisti in Scozia che potrebbero essere nervosi per il loro voto allo SNP e fa capire che con questo voto possono danneggiare i conservatori e ottenere un governo laburista.

Sia lo SNP che i conservatori stanno quindi usando la paura del nazionalismo scozzese per intaccare il voto laburista. Il Labour ha risposto in maniera dura (qualcuno potrebbe pensare stupidamente) e ha dichiarato che non ci sarà nessuna coalizione o disponibilità a “trattare” con lo SNP (e forse ha reso molto complicato un eventuale accordo con lo SNP).

L’altro fattore, nel calcolo elettorale, sono i liberaldemocratici che, negli ultimi 5 anni sono stati al governo con i conservatori.

Nelle precedenti elezioni erano riusciti, attraverso il loro leader Nick Clegg, a proporsi come una nuova forza politica, onesta, con un viso fresco, completamente diversa dai vecchi partiti. Nei dibattiti televisivi tra i leader, Clegg ha fatto la parte del leone. Ma questa immagine è durata solo fino a quando l’accordo di coalizione non lo portò a firmare ciò che fino a pochi giorni prima del voto (e in maniera solenne davanti alle telecamere) aveva negato, vale a dire un aumento delle tasse universitarie.

Questo errore pesa come un macigno sul suo futuro ed è cordialmente detestato da ampi settori dell’elettorato Lib-Dem. Elettorato che, non dimentichiamolo aveva “ingoiato” la coalizione con Cameron perché veniva da una tradizione di sinistra e decisamente liberal su molte questioni sociali. Sembra, dunque, che sia abbondantemente chiaro per Clegg che un’altra coalizione con i Tories è fuori questione.

Allo stesso modo, le componenti non trascurabili di elettori laburisti che erano passati ai Lib Dem ultima volta, lo avevano fatto non certamente per arrivare ad un accordo con i conservatori. E pare ormai certo che quegli elettori non vogliano ripetere lo stesso errore.

Nemmeno per Clegg la strada è facile. Per conservare il suo seggio deve ottenere i voti di quegli stessi studenti (nella sua circoscrizione, hanno un peso elettorale rilevante) che stanno per lasciare l’università con un debito verso lo Stato di 16.000 sterline, le tasse che dovranno ancora pagare nei prossimi anni. Quasi certamente diventerà leader del partito Vince Cable, che è culturalmente molto più vicino ai laburisti che ai conservatori.

Ci sono, naturalmente, i partiti più piccoli, come Plaid Cymru, (i nazionalisti gallesi) e il “socialdemocratico e laburista” in Irlanda del Nord che quasi certamente sosterranno il Labour. Anche gli Unionisti in Irlanda del Nord, che tradizionalmente fanno parte del blocco conservatore in Parlamento, non sono certo favorevoli a Cameron, che vedono come una minaccia per l’integrità del Regno Unito.

Quindi cosa succederà?

I conservatori, probabilmente, saranno il più grande partito, ma non saranno in grado di mettere insieme una coalizione; dopo un periodo di trattative (che questo paese vivrà davvero con stupore) quello che emergerà sarà, a quel che si può capire alla vigilia, una coalizione Labour- LibDem con lo SNP non coinvolto formalmente ma disposto a sostenerlo con i voti dei propri parlamentari.

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