A lezione di libertà con le donne palestinesi
Intervista L'esperienza di Lema Nazeh (membro del Comitato di Coordinamento dei comitati popolari nei Territori Occupati), al convegno di Roma presso la Casa internazionale delle donne, dove confluiscono attiviste e ricercatrici dall'Austria alla Tunisia
Intervista L'esperienza di Lema Nazeh (membro del Comitato di Coordinamento dei comitati popolari nei Territori Occupati), al convegno di Roma presso la Casa internazionale delle donne, dove confluiscono attiviste e ricercatrici dall'Austria alla Tunisia
Identità resistenti contro un sistema unico, quello patriarcale declinato in forme differenti – neoliberismo, capitalismo moderno, disuguaglianze velate. Nel caso palestinese il volto è l’occupazione militare israeliana. Ne abbiamo discusso con Lema Nazeh, attivista e vice presidente del Comitato di Coordinamento dei comitati popolari nei Territori Occupati. Porterà la sua esperienza al convegno La libertà delle donne nel XXI secolo, a Roma (presso la Casa internazionale delle donne).
Il Mediterraneo, culla dell’incontro di popoli per millenni, oggi si fa barriera tra due mondi. Eppure quegli stessi popoli restano legati da tradizioni, usi, cultura. È possibile ritrasformarlo in mezzo di scambio positivo?
Per comprendere tale evoluzione vanno analizzati gli elementi politici che definiscono la prospettiva mediterranea. A partire dai cambiamenti radicali che vivono da anni i paesi arabi a causa di guerre, conflitti interni, sollevazioni. E dei movimenti radicali islamisti: hanno un ruolo cruciale nella separazione tra culture perché hanno effetti anche al di là del mare, in Europa. In tale contesto va rilanciato il ruolo dei movimenti delle donne, da sempre spinta alla trasformazione delle società.
Le donne presenti al convegno provengono da paesi europei, nordafricani e mediorientali. Cosa accomuna le loro lotte e cosa le diversifica?
Una piattaforma di questo tipo è fondamentale perché crea una rete di resistenza. Conflitti diversi, problemi diversi e paesi diversi necessitano di strumenti di resistenza comuni. Sono femminista, attivista politica e palestinese, ho la mia identità ma ritengo importante capire cosa accade fuori, quali ostacoli altre donne già sperimentano. La conoscenza evita radicalismo e chiusura. Da parte mia, porterò l’esperienza delle donne palestinesi che da un secolo rifiutano il vittimismo, utile a silenziarle, e rivendicano il loro storico attivismo politico.
Nel suo caso la lotta è contro un’occupazione militare che ha plasmato la società palestinese e anche i movimenti femministi…
La potenza delle donne palestinesi era visibile già un secolo fa: delegazioni delle organizzazioni femministe andavano in Europa per denunciare il colonialismo del mandato britannico sulla Palestina. Da allora, sono sempre state in prima linea, nella lotta e nel negoziato. Senza dimenticare la capacità di mantenere viva l’identità palestinese attraverso la tutela delle comunità e delle singole famiglie nei periodi di peggiore abuso, dalla Nakba del 1948 alle due Intifada. A ciò si aggiunge la loro partecipazione al movimento di liberazione nazionale e all’Olp, fin dai suoi albori. Non sono mai state una semplice stampella, ma parte integrante del processo decisionale. Lo stesso Olp fece appello alle donne perché partecipassero alla definizione della società che si sognava, rivoluzionaria e post-coloniale. Mi infastidisce l’idea che gli europei hanno delle donne palestinesi e arabe: vittime bisognose di protezione. Un simile atteggiamento ci mina.
Il mondo è dominato da un pensiero patriarcale. La stessa occupazione è un sistema autoritario che ha il suo braccio nell’esercito, strumento tipicamente maschilista di repressione. Lei fa parte dei Comitati Popolari di resistenza: un modello alternativo a quello monolitico e centralista dell’occupazione?
L’idea dei comitati popolari non è nuova nella lotta di liberazione. La Palestina ha sperimentato forme di resistenza diverse, lotta armata, disobbedienza civile, boicottaggio economico, auto-gestione. Tutte si sono realizzate coinvolgendo l’intera società, ogni villaggio, ogni quartiere, ogni strada, persone di tutte le età. L’esperienza della Prima Intifada è un modello: comitati che operavano localmente disegnando una strategia nazionale. Oggi vogliamo riattivare quella lezione: che ogni villaggio si organizzi sotto l’ombrello di un coordinamento nazionale. I primi sono sorti undici anni fa, dopo la devastazione della Seconda Intifada. Serviva qualcosa che risvegliasse il popolo attraverso il coinvolgimento collettivo a partire dalle realtà più piccole, i villaggi. Da lì sono iniziate le battaglie contro le colonie, il muro, l’immediata forma di occupazione che ogni comunità ha di fronte. È la nostra proposta per il movimento di liberazione: adottare un modello che sia locale e, allo stesso tempo, internazionale. Combattere dalla base e internazionalizzare la resistenza.
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