A Gerusalemme seggi solo a ovest: il 40% degli abitanti senza diritto di voto
Elezioni israeliane Simbolo della discriminazione interna, i suoi 340mila palestinesi sono apolidi: senza cittadinanza né diritti politici. Nella Città Santa si è giocata una fetta di elezioni, ma «l’unità» di cui parla Tel Aviv non riguarda i residenti
Elezioni israeliane Simbolo della discriminazione interna, i suoi 340mila palestinesi sono apolidi: senza cittadinanza né diritti politici. Nella Città Santa si è giocata una fetta di elezioni, ma «l’unità» di cui parla Tel Aviv non riguarda i residenti
Su Gerusalemme si è giocata una fetta di campagna elettorale. Che Netanyahu abbia tenuto nonostante incriminazioni varie ed eventuali, il Likud lo deve anche alla narrazione intorno alla Città Santa e al regalo del primo sostenitore dell’estremismo del premier, Donald Trump.
Meno di un anno e mezzo fa, con una dichiarazione che provocò la sollevazione palestinese, il presidente Usa riconobbe unilateralmente Gerusalemme capitale d’Israele. Sei mesi dopo, il 15 maggio 2018, ha trasferito l’ambasciata da Tel Aviv alla Città Santa.
Eppure è proprio quella città – che la legge israeliana definisce «capitale unica e indivisibile» dello Stato ebraico – a essere lo specchio più fedele della discriminazione interna: la capitale, per Tel Aviv, è unica ma unici non sono i suoi residenti. Perché a Gerusalemme i 340mila abitanti palestinesi, il 40% del totale, non hanno diritto di voto alla Knesset. Non ce l’hanno perché non sono cittadini ma meri residenti.
In mano hanno un laissez passer, un documento di viaggio (spesso giordano), ma nessuna cittadinanza. Sono apolidi pur essendo nati a Gerusalemme, discendenti di famiglie che da secoli ne compongono demografia e ne narrano la storia. Un dato non da poco, soprattutto alla luce della vittoria del Likud registrata a Gerusalemme ovest, la sola parte dove martedì i seggi erano aperti.
Pochissimi, 3-4mila, i palestinesi titolari di cittadinanza. Tra questi la moglie di Murad Jadallah, ricercatore palestinese ed ex prigioniero politico. Vivono a Beit Safafa, quartiere spezzato in due nel 1948 dalla Linea Verde e oggi da una superstrada costruita a tempo di record che unisce le colonie a sud con Tel Aviv e il nord.
«Qui ci sono palestinesi con cittadinanza israeliana, ma sono pochissimi. Difficile dire quanti abbiano votato, ma visti i risultati delle liste arabe direi quasi nessuno». «Il 99% dei palestinesi di Gerusalemme ha solo un permesso di residenza – ci spiega – Alcuni hanno il passaporto giordano, ma non sono cittadini giordani. E se chiedessimo la cittadinanza all’Autorità palestinese di Ramallah, rischieremmo di perdere il diritto di vivere a Gerusalemme: per non vedercela ritirare dobbiamo costantemente dimostrare che questa città è il centro della nostra vita. Membri del parlamento palestinese residenti a Gerusalemme l’hanno persa, alcuni sono stati costretti all’esilio a Ramallah, altri arrestati».
Intanto Gerusalemme cresce, i suoi confini si ampliano: è il progetto della Greater Jerusalem portato avanti da anni da Tel Aviv: «La destra parla di Gerusalemme in riferimento solo alla sua popolazione ebraica, noi non siamo parte del quadro, siamo “ospiti” temporanei – aggiunge Murad – I confini crescono perché Israele annette le colonie in Cisgiordania ma non le comunità palestinesi accanto. Gerusalemme non è uno spazio geografico, ma politico».
«Il fatto di non godere di diritti politici e di non poter votare alla Knesset è il minore dei problemi». Obay Odeh è un giovane attivista di Gerusalemme, rifugiato: la sua famiglia è originaria di Lifta, tra i più ricchi quartieri della città prima del 1948. Fu svuotato dei suoi abitanti durante la Nakba dalle milizie paramilitari sioniste, oggi quel che resta sono case abbandonate su cui più di uno speculatore ha messo gli occhi per trasformare quel luogo in un hub commerciale.
«Noi palestinesi di Gerusalemme, come i drusi siriani del Golan occupato, possiamo votare alle elezioni comunali, eppure solo il 2% lo fa perché non riconosciamo la legittimità di un governo occupante. Il problema non è il poter votare per un parlamento sionista ma tutti gli altri diritti che ci sono negati: dal diritto alla cittadinanza a quelli al movimento, alla casa, all’educazione».
«Chissà, forse se avessimo la cittadinanza, la mappa politica di Gerusalemme cambierebbe, sarebbe più simile a quella di Haifa o Jaffa. Ma votare, no, non ci interessa: vorrebbe dire dare l’assenso all’occupazione».
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