A Essaouira dove la musica è l’arte dell’incontro
Musica I mille appuntamenti del festival che accende i riflettori sulla città marocchina e il suo patrimonio sonoro
Musica I mille appuntamenti del festival che accende i riflettori sulla città marocchina e il suo patrimonio sonoro
La vertigine ad Essaouira é sempre in agguato. Il vento che la scuote senza tregua (è chiamata per questo la «città degli alisei»), finisce per regalare a chi la abita e a chi la visita, una sorta di frenesia e di travaglio cui possono sfuggire solo in pochi e solo in alcuni angoli particolarmente riparati della Medina. Il resto è turbinio perenne: borbottii di oceano agitato, gabbiani che reclamano cibo, pescatori che offrono il bottino del loro peregrinare notturno, carretti cigolanti che trascinano spezie o valigie, salmodie di muezzin gracchianti nelle trombe a campana appese sui palazzi, persone che abitano il suo centro fortificato, petit taxis che a quel centro girano intorno, perché le vie sono troppo strette e intricate per farvi entrare vetture e motorini. Essaouira detiene il primato anche di un altro tipo di vertigine, che l’ha resa celebre nel mondo e ha attirato in Marocco frotte di musicisti, cineasti, intellettuali e studiosi (nella lista di questi «visitatori» interessati anche Jimi Hendrix, Cat Stevens, Paul Bowles, Orson Welles, Pier Paolo Pasolini..).
È la vertigine del rito gnaoua – la «lila» – che all’inizio abitava solo la notte della città e poi è esondata anche nelle altre porzioni del giorno, grazie a una ricetta sonora che si è dimostrata permeabile a qualsiasi intrusione («La musica gnaoua è una fusione e si può fondere sempre con qualcos’altro» ha detto nei giorni scorsi il Maâlem Mohamed Kouyou) e a un festival che da vent’anni accende i riflettori sulla città e sul suo patrimonio sonoro. Vent’anni per una cultura ancestrale sono una bazzecola, ma è innegabile che fissare questo appuntamento ogni anno sia servito a corroborare gli stilemi di una cultura nata dall’incontro tra cultura subsahariana, islamica e berbera, dando l’opportunità altresì a decine di musicisti convocati per l’occasione da ogni latitudine di confrontare il proprio alfabeto con questo esperanto musicale così inebriante e seduttivo. Non sorprende allora di vedere celebrate nei giorni del festival alcune sedute rituali particolarmente efferate (i luoghi prescelti sono riad e sale private come Dar Loubane e Zaouia Issaoua) con l’atmosfera «vertiginosa» certificata da astanti anziane e giovani che si agitano coperte da un velo in una mossa iterativa sempre più frenetica, e allo stesso tempo poter ascoltare, a un centinaio di metri da questo rifugio esoterico, altri maâlem convocati su un palco gigantesco (uno piazzato nello slargo di Bab La’Chour, un altro nel magnifico scenario di una porzione della spiaggia di 12 chilometri che introduce l’oceano a questa città marocchina).
L’apertura mentale dei maâlem è una delle cose che più sorprende. Chi pensa di trovare maestri arroccati sulla propria tradizione rimane deluso. Armati di guimbri (il basso a tre corde che si suona slappando ed è lo strumento sacro di questa confraternita), i maâlems gestiscono abilmente le ondate di frenesia febbrile dei propri chierichetti strumentali (i suonatori di krakeb – nacchere metalliche – che sono sempre anche danzatori e protagonisti del controcanto responsoriale) e accolgono al cntempo le pulsioni diversificate dei musicisti ospiti convocati da ogni parte del mondo. Tra le «fusioni» innescate quest’anno raggiungono risultati apprezzabili quelle tra la «tagnouite» (potremmo tradurla maccheronicamente con «gnaouità») dei maâlems Said e Mohamed Kouyou con l’ossessiva carica ritmica del brasiliano Carlinhos Brown e quella tra il Maâlem Abdeslam Alikane e il congolese Ray Lema. Ciambella senza buco invece per l’incontro tra Il maâlem Khalid Sansi e il pianista inglese Bill Laurence, ma in questo caso la colpa è soprattutto della rovinosa ricetta sonora dell’ospite, legata a obsolete e «plasticose» pratiche jazz-rock tipicamente anni ’80.
Il miracolo vero lo compie però il francese Titi Robin. Era d’altro canto anche l’esperimento più spericolato, perché metteva in gioco non due ma addirittura quattro mondi musicali totalmente diversi: il suo (quello di francese senza passaporto ma pur sempre legato anche a una poetica di matrice transalpina), le percussioni del brasiliano Ze Luis Nascimento, un duo dell’Uttar Pradesh formato dal vocalist Murad Ali Khan e dal suonatore di Tarantino Shuheb Hasan, e infine il giovane talentuoso maâlem nato ad Agadir Mehdi Nassouli. Salto mortale perfettamente riuscito. Pastosità del suono, identità delle diverse matrici, virtuosismo individuale, equilibrio timbrico: tutto perfettamente amalgamato. Come se queste culture non vedessero l’ora di mescolarsi e avessero solo bisogno di trovare un manipolo di interpreti illuminati, un palinsesto che funzionasse da miccia creativa e una città che le convocasse. Tutte insieme vertiginosamente.
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