Visioni

A Dunkirk tutta la fragilità della guerra

A Dunkirk tutta la fragilità della guerraFionn Whitehead in una scena di «Dunkirk»

Al cinema Nelle sale italiane dal 31 agosto il nono lungometraggio di Christopher Nolan dove riassume l'epica ritirata - nel 1940 - di circa 400 mila truppe inglesi, francesi, belga e canadesi incalzate da quelle di Hitler

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 30 agosto 2017

Christopher Nolan ha definito Dunkirk il suo film più sperimentale dai tempi di Memento. In effetti, a partire dalla suddivisione per elementi – terra, aria, mare – dall’assenza quasi totale di dialoghi, dalla qualità anche fisicamente immersiva della texture e dell’uso delle immagini, il nono lungometraggio del regista inglese respira di un sollievo che sa di ritorno alle radici. Il «piccolo film indipendente» da cento milioni di dollari che la WB gli ha finalmente permesso di fare dopo tre Batman, due macchinosi, parlatissimi kolossal fantascientifici e dopo che Nolan ha codificato (prima di Zack Snyder) per lo studio di Bugs Bunny l’estetica nero pece e i valori monumentali che caratterizzano la (loro) partnership con DC Comics.

Da sempre affascinato dall’arbitrarietà e dalla non linearità della percezione temporale (ancora Memento, Inception, ma anche il suo primo, Following, e il sottovalutato Insomnia), ai tre elementi del film, Nolan associa tre cronologie indipendenti tra loro (nove giorni, un giorno, un’ora), che a malapena si sfiorano, ma che lui monta come fatti in simultanea, e in cui riassume l’epica ritirata di circa 400 mila truppe inglesi, francesi, belga e canadesi, incalzate da quelle di Hitler sulla spiaggia di Dunkirk nella primavera del 1940.

Che sia stata una massiccia operazione di soccorso, resa possibile anche dall’eroismo e dalla partecipazione dei civili, piuttosto di una gloriosa vittoria sul campo di battaglia bagnato di sangue è chiaramente una delle ragioni per cui Nolan ha voluto filmare questa storia, così intrinseca, dice lui, al DNA dell’Inghilterra in cui è cresciuto e al cui racconto –la sceneggiatura è sua – ha dato un’impronta deliberatamente impressionistica. Il film comincia con un gruppo di giovani soldati che si aggirano per le strade di un villaggio deserto. Uno è abbattuto da una pallottola.

A un altro (Fionn Whitehead), riparatosi dietro a una trincea di fortuna, viene indicata la via per la spiaggia dove, visti dall’alto come formiche in file surrealmente ordinate, perpendicolari al bagnasciuga, migliaia di soldati come lui guardano l’acqua aspettando di essere evacuati da navi che in realtà non possono arrivare perché il fondale sabbioso è troppo basso.

Interpretati da un gruppo di attori inglesi poco conosciuti (con l’eccezione della pop star Harry Styles), questi ragazzi in divisa scura, con le facce pallide e spaventate hanno un solo obbiettivo, che non ha nulla a che vedere con l’eroismo: sfuggire a quella trappola mortale – Dunkirk è meno un film sulla guerra che un film sulla sopravvivenza.

I nazisti –i cattivi cinematografici più scontati del mondo pre-Donald Trump – non appaiono nemmeno in controcampo. I soldati non muoiono combattendo, ma falciati dal fuoco aereo come un videogioco del massacro, e senza spruzzi di sangue, affogando uno contro l’altro come topi nella stiva di una nave che affonda, colpiti da pallottole di nemici che non vedono mentre si nascondono nel ventre di un battello tristemente arenato sulla spiaggia.

Dalla punta del molo che fende l’acqua grigia e fredda, il comandante Kenneth Branagh attende la catastrofe, frugando invano con gli occhi l’orizzonte. Dall’alto, in uno spazio cielo/mare azzurro come se fossimo ai Caraibi, nelle sequenze più belle di Dunkirk (che ricordano l’estasi del filmare «in volo» di capolavori delle origini del genere, come Hell’s Angels) Tom Hardy, a bordo di uno Spitfire, centellina pallottole piazzate ad arte e la benzina che non ha quasi più. Dall’altra parte della Manica, il marinaio Mark Rylance arma alla meglio il suo battello da pesca e, con il figlio teen ager e un amico ancora più giovane di lui, parte alla volta della costa francese per fare «quello che può», insieme a centinaia di altri cittadini inglesi a bordo di piccoli vascelli, forse persino troppo fragili per la minaccia delle onde.

Rinunciando per una volta a lunghe spiegazioni a voce di quello che succede, Nolan incolla visceralmente il film alla fragilità dell’esperienza dei singoli personaggi, agli obbiettivi apparentemente poco grandiosi che ognuno di loro si pone –non morire, usare al meglio l’ultima goccia di carburante che c’è nel serbatoio, caricare a bordo un tremante, scioccato, ufficiale naufrago (Gillian Murphy). Persino le temibili musiche di Hans Zimmer evitano il trionfalismo più smaccato nel totale in cui la flottiglia civile appare ai soldati sull’orlo del mare. Sono la qualità astratta, il minimalismo, il non detto che rimangono del film. Non la sua scala.

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