Visioni

«A date in Minsk», la naturalezza della finzione

«A date in Minsk», la naturalezza della finzioneNikita Lavretski e Volha Kavaliova in «A date in Minsk»

Festival Nikita Lavretski vince DocLisboa, il regista è anche protagonista di un appuntamento messo in scena. I mezzi artigianali di ripresa, la scelta di un unico piano sequenza, una coppia che si incontra per la prima volta

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 18 ottobre 2022

Il vincitore dell’edizione 2022 del festival Doclisboa è il regista bielorusso Nikita Lavretski con A date in Minsk (Un appuntamento a Minsk). Avevamo scritto di questo regista proprio da Lisbona l’anno passato, dove aveva portato A Kid’s Flick, corto ispirato dalla cultura manga, fatto in casa (letteralmente) con la complicità di Volha Kavaliova. Il nuovo film non perde nulla della fantasia, dell’audacia e del bricolage del precedente. E, dietro l’artigianato della fabbricazione (è un film girato con un Iphone, due microfoni Lavalier e un budget uguale a zero), riesce ancora una volta a proporre un’opera artistica solida, personale e politica.

TUTTO comincia con un doppio ovale contenente le foto e i nomi dei protagonisti, Nikita e Volha, che ricorda i medaglioni a due facce degli innamorati, nonché i titoli di testa di certi film della Nouvelle vague. La storia è puramente rosselliniana. Si tratta d’una coppia…e null’altro. D’altra parte, gli attori sono al tempo stesso una coppia nella vita che, come recita una cartello all’inizio: «Hanno mantenuto una relazione tossica, abusiva, interdipendente negli ultimi otto anni. Nel film che segue interpretano i personaggi di finzione Nikita e Volha, che si sono appena incontrati». Si tratta d’un incipit assolutamente programmatico. In questo scivolare dal passato al presente e dal presente alla finzione c’è infatti un meccanismo che fa tutt’uno con il cinema stesso e che A Date in Minsk esplora in tutte le possibili direzioni.
La scena comincia in un biliardo. È questo il posto che Nikita (il personaggio e il regista) ha scelto per il «primo appuntamento» con Volha, preferendolo ad un cinema, dove lo svantaggio, dice lui, è che non si può parlare. La conversazione che segue, e che dura un’ora e mezza senza interruzione, è di disarmante naturalezza. Sarebbe stata inimmaginabile in un dispositivo tradizionale di messinscena, chiedendo agli attori di recitare una sceneggiatura o di improvvisare su un canovaccio. Solo due persone che possiedono una complicità quasi patologica potevano crearla sul momento. Al tempo stesso, il gioco consiste a scoprirsi di nuovo, come fosse la prima volta, passando in rivista argomenti come Tinder, la sincerità, lo sci, la terapia psicoanalitica, il femminismo, l’impero russo e molti altri tenuti insieme dalla più libera associazione di idee.
Da un punto di vista cinematografico, il film è girato con un solo piano sequenza lungo quanto il film. La macchina da presa gira intorno al biliardo mentre i due attori discutono, fermandosi ora sull’uno ora sull’altro. In seguito, quando la partita finisce, li accompagna fuori dal locale, attraverso delle strade poco o per nulla illuminate, fino ad arrivare al centro cittadino, dove i due si salutano, Volha prende il metrò, Nikita resta, guarda in macchina e dichiara che ci si può fermare. Il film è finito.

SONO passati esattamente vent’anni da quando Sokurov ha girato l’Arca russa. Un film ambiziosissimo sul fondamento metafisico dello spirito russo. Quel film doveva essere girato tutto in un solo piano sequenza. Un po’ per opporsi al formalismo del montaggio di Eisenstein, ma soprattutto per opporsi all’idea, marxista trattino leninista, che la storia è fatta di salti, di tagli, di momenti di rottura. Ma perché la storia con la piccolissima s di Nikita e Volha ha bisogno di essere rappresentata con questa tecnica? Che cosa ci vuol dire? E soprattutto, al di là delle intenzioni, che cosa rende possibile?

DA UN LATO, la scelta di inventare un incontro fittizio tra due persone che si conoscono da anni afferma che il cinema ha bisogno di maschere, di messa in scena, ovvero di finzione. Dall’altro, il piano sequenza ricorda il contrario: non può esserci solo la finzione. Perché questa si nutre del suo opposto: l’assenza di manipolazione. Viceversa, l’effetto di questo cinema in diretta, senza montaggio, senza découpage, senza luci e trucchi è certo quello di un’incredibile freschezza. Ma questa leggerezza espressiva – che Nikita rivendica quando spiega a Volha la propria libertà di cineasta ultra-indipendente – è lì per rendere più solide e gravi tutta una serie di tematiche politiche e sociali sulla Bielorussia, quali l’aggressione dell’Ucraina o l’espatrio come destino di una generazione; tematiche che i due protagonisti affrontano all’interno di una conversazione che non diventa mai ideologica proprio perché la loro performance rimanda costantemente ad un vissuto effettivo latente. Così, se da un lato A date in Minsk comincia come una sorta di scherzo, dal film emerge una rigorosa morale dell’immagine. Nikita la esplicita tra il serio e il faceto quando, arrivati al centro cittadino, dichiara: «Ho visto un film girato da un russo in Estonia sulle proteste in Bielorussia, si intitola Minsk. È un bidone! Un “fake movie” girato a Tallin! Questa è Minsk!». Impossibile dargli torto.

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