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A Castelvolturno, tra Freud e voodoo

A Castelvolturno, tra Freud e voodooQui e in pagina, foto di Luca Musella

In Italia I migranti in Campania, tra solidarietà, indifferenza, sfruttamento

Pubblicato circa 3 ore faEdizione del 19 ottobre 2024

Si gira a vuoto sulla Domiziana, centro di gravità permanente della nostra Piccola Africa incastonata tra Castelvolturno, Pescopagano e Destra Volturno… colpa mia che non imbocco mai l’uscita giusta fuorviato da queste rotonde tutte uguali? Può essere, ma pure colpa di ‘sto panorama acido, assurdo, quasi comico che ci scorre affianco nelle sue surreali contraddizioni: stabili in rovina e alberghi di lusso deserti, eco-mostriciattoli incompiuti e linde case di riposo, villette arrugginite, segnaletiche scarrupate, statue di santi, gommisti, mozzarellari, negozietti afro, chiesette Pentacostali… roba che evidentemente manda fuori di testa anche il navigatore. Così a noi, tra lo stradone e le stradine, sembra di stare sempre nello stesso punto.

Poi, d’improvviso, al chilometro 43 della Domiziana il pugno nello stomaco: è qui che il 18 settembre del 2008 il giorno di San Gennaro i sicari del boss casalese Setola sciolsero ben altro sangue: quello di sei africani colpevoli di essere africani. «Una ferita che nella comunità africana è sempre aperta, nella carne, nei cuori e nelle menti», mormora Pasquale Marrandino, il sindaco di Castel Volturno quest’anno anche lui presente alla commemorazione promossa dalla Rete Castel Volturno Solidale formata, tra gli altri, da Caritas, Emergency e Centro Sociale ex-Capanificio. «Sono un sindaco da marciapiede,» dice, «solo negli ultimi 4 anni dalla strada ho dovuto raccogliere almeno 150 migranti i cui corpi nessuno rivendicava, tanto che al cimitero ho dovuto far approntare anche delle celle frigorifere.» Marrandino è giovane ma per la sua età ne ha viste fin troppe: «la mia è una famiglia d’imprenditori… la camorra ci minaccia da sempre ma noi non ci siamo mai piegati, io fin da bambino ho sempre convissuto con questa minaccia… una cosa che ti segna dentro».

E se insicurezza, vulnerabilità, angoscia, lasciano il segno in un sindaco sotto scorta, figuriamoci nelle teste di migranti senza permesso di soggiorno. Qui la comunità africana conta 20.000 stanziali di cui 15.000 irregolari, molti ripiombati in clandestinità dopo che Salvini ha abolito i permessi di soggiorno per motivi umanitari. Così chi aveva un’identità, un contratto di lavoro, una casa regolare, un piccolo conto in banca… ha perso tutto! Qualcuno anche la testa. I numeri? Difficile dirlo. La nostra Piccola Africa confinante con l’immenso hinterland vesuviano è anche questo: transiti senza meta di esistenze che possono celare disturbi psichiatrici difficili da censire. E la percezione tra le associazioni tutelano i migranti e i migranti stessi è diametralmente opposta: le prime parlano di un’esigua minoranza vittima di disturbi mentali, per i migranti è malattia quasi collettiva. Fatto sta che qui anche la follia, si presenta come un lusso che in certi contesti non ci si può permettere. Lo stigma, la solitudine del migrante fragile nel suo mondo che lo espelle, come nel nostro che non sa curarlo, crea in quei clandestini con turbe mentali una sacca di ultimi: i dannati della terra schiacciati tra sogno e bisogni. Che soccombono a una sofferenza oscura, diversa e uguale alla nostra. Un mal di vivere che amplificato o meno dall’abuso di alcol e sostanze, crea equilibri acidi, altalene dalle quali quando si cade, si cade come da una torre.

Isaac Gyedu, cinquantenne da oltre un ventennio in Italia, la caduta ha saputo attutirla ma ancora mostra una certa instabilità. In Ghana ha lasciato la famiglia in attesa del suo miracolo economico che non arriva: un domani accadrà che lo ha cronicizzato in un limbo dove non è più ghanese né italiano. Per i suoi figli che crescono è solo una voce, e Isaac sa bene che tornare a casa con le pive nel sacco, è significa il totale fallimento del suo progetto migratorio e della sua stessa esistenza. «Sono partito dalla Libia con uno scafo che poteva portare una trentina di persone ma gli arabi ce ne hanno infilati altri quindici così per fare posto ci hanno preso le valige, il cibo, l’acqua, le scarpe, e hanno buttato tutto a mare. Io e mio zio siamo arrivati in Italia scalzi, quattro giorni senza mangiare e senza bere, distrutti, e lui che è vecchio ha perso la testa… è buono, ma ora non capisce niente. Io come succede mica lo so: il deserto, le botte, la paura, la fame… e sei sano, poi arrivi in Italia e invece di essere contento si jesce pazz’ overamènte!» Trauma? Ereditarietà? Predisposizione? Dipendenze? Precarietà esistenziale? Com’è che se jesce pazz’? Lo chiediamo ad Antonio Casale, direttore del Centro Fernandez della Caritas a Castel Volturno che di accoglienza si occupa dal 1996 e ne ha viste di tutti i colori.

«Abbiamo il migrante dalla Costa d’Avorio che è convinto di essere un Ambasciatore, quello convinto che Dio gli ha affidato il compito di tenere sempre pulito un pezzettino di strada, quello che entra in chiesa e butta per l’aria i quadri dei santi, chi ha i deliri religiosi, chi visioni mistiche… ma l’episodio più assurdo è di qualche anno fa. Un gruppo d’una trentina di scoppiati bivaccava nella pineta qui accanto, si facevano di crack, alcolici, pasticche… noi li abbiamo accolti quasi tutti e molti li abbiamo salvati. Ma cosa è strapparli alle dipendenze, altra cosa è restituirgli un equilibrio. Qui abbiamo ambulatori medici delle più disparate discipline, ma per psichiatria e psicologia niente. Di conseguenza ciò che manca è la presa in carico. Cosa già di per sé complicatissima per qualunque soggetto psichiatrico, quando poi, come per i migranti, dietro non ci sta una famiglia o una rete sociale, il percorso terapeutico diventa impossibile da far seguire. Mollano le terapie, disertano i controlli… allora noi li dirottiamo alla ASL di Caserta, ma quando il disturbo non sfocia nell’aggressività, purtroppo ci si ferma ai farmaci. E nei casi estremi di soggetti pericolosi scattano unicamente i percorsi penali».

Ma come, quando, perché si scatena la malattia mentale? Nei film di Hollywood ricorre una costante: la ferita interiore. Reduci di guerra, donne che devono vendicarsi… insomma: un fantasma del passato che dà fuoco alla miccia. Ma nella vita vera non tutti i reduci di guerra sbroccano e non tutte le donne offese diventano giustiziere della notte. È qui il mistero delle patologie mentali: in situazioni analoghe non tutti spingono il cervello nei luoghi dello spaesamento totale. Ci si dibatte allora nell’antico dilemma uovo/gallina: è così perché è successo questo? Oppure è successo questo perché è così? Fatto sta che se le migrazioni con il loro cruento calvario spingono alcuni a sviluppare disturbi psichiatrici, la clandestinità, la burocrazia ostile, la negazione dei diritti essenziali… sono formidabili scivoli verso il delirio. E la stessa cura, basandosi di fatto sulla parola, diventa, quando la parola è straniera o incomprensibile, impraticabile. Un po’ come il pianto dei neonati che nella assenza di una lingua, porta in una sfera di malessere potenziale: mal di denti? colica? capriccio? fame? I migranti poi, con il loro carico simbolico di pericolosità sociale, finiscono dritti dritti nel labirinto della mostruosità dove ogni elemento umano è triturato attraverso l’abbandono o la camicia di forza farmacologica.

Nonostante quindi il Centro Fernandez sia luogo non solo di servizio e accoglienza ai migranti ma di indubbia evoluzione culturale per tutto il territorio, davanti a certi casi deve alzare le mani. Sostiene ancora Casale: «i fattori scatenanti di psicolabilità dei subsahariani, che in questo territorio sono il 90% degli africani, sono ricorrenti: le violenze subite, il fallimento d’un progetto di vita, il gap culturale… ma per tutti, dico tutti, la prima causa di malessere che poi sfocia in disagio mentale è l’incubo permesso di soggiorno. Il permesso di soggiorno mai avuto. Il permesso di soggiorno non rinnovato».

Roba che ti fa delirare la notte finché il compagno di stanza che magari non riesce a dormire, non ti prende di peso e ti scarica in via Domiziana 288. Dove ha sede l’Ambulatorio che Emergency ha aperto a Castel Volturno nel 2015. «Abbiamo cominciato a lavorare qui nel 2013 con un’unità mobile» ci racconta il coordinatore Sergio Serraino un giovane siciliano con pettorina d’ordinanza, orecchini e dreadlock, «e due anni dopo abbiamo aperto questo Ambulatorio rivolto sia alla fascia adulta che a quella pediatrica… sta a dire i piccoli di donne clandestine. Ed è proprio da questo fronte che abbiamo avuto una buona notizia: un anno fa la Regione Campania ha finalmente emanato una circolare che riconosce ai bambini delle extracomunitarie irregolari il diritto all’assegnazione gratuita di un pediatra. Così abbiamo chiuso l’ambulatorio di pediatria… del resto la nostra sfida più grande, qui come in ogni angolo del mondo dove siamo presenti, è quella di creare le premesse per cui di non ci sia più bisogno di noi neanche per la popolazione adulta.» In che modo? «Interveniamo» precisa Serraino, «mettendo in campo la nostra mediazione culturale, il che non è solo accompagnare fisicamente il migrante per agevolare la comprensione tra lui e i servizi, ma un lavoro di costruzione di una fiducia, di un rapporto umano, senza il quale ogni cura diventa vana. Nella salute mentale noi quasi sempre agiamo su segnalazione di qualche amico, ma il nostro intervento non contempla la presa in carico, non abbiamo questo tipo di servizio. Insomma… interveniamo dove è possibile, e non sempre le cose vanno per il verso giusto. Tempo fa per dirne una, ci hanno segnalato un migrante che dava in escandescenza con la moglie.

Abbiamo diramato il caso a tutti… ma se le strutture sanitarie sono in difficoltà ovunque, qui peggio. Così, purtroppo, il caso è finito molto male: l’uomo ha staccato il naso alla moglie con un morso e adesso è in prigione dove non può che peggiorare. Il malessere comunque nasce da questo senso opprimente di precarietà: una statistica non la posso fare ma nella mia per la esperienza posso confermare che è questa nostra burocrazia a innescare spesso i meccanismi del delirio. Permesso sì, permesso no, posso andare al paese, non posso andarci, foglio di via… un imbuto di regole a loro poco comprensibile che rende la clandestinità qualcosa di più simile a una malattia che a una condizione esistenziale. Così i più fragili possono cadere in tante trappole e non uscirne del tutto mai più».

Da quando sono stati buttati fuori dalla loro sede storica, gli attivisti del Centro Sociale Ex-Capanificio aprono il loro Sportello Tutela Migranti in altre sedi, due volte alla settimana. Nel loro staff c’è anche un pastore Pentacostale di mezza età che veste sportivo e trasmette solidità: Prosper. A differenza di altri improvvisati pastori della nostra Piccola Africa, Prosper è una guida spirituale stimata, vera e propria antenna sui casi sommersi. Non a caso, il più delle volte, i compagni di stanza che non riescono a dormire perché il vicino di branda dà i numeri, ancor prima che in Caritas o da Emergency, è a lui che portano il disagiato di turno.

«Tra gli africani» ci spiega «la salute è anche legata a una sfera spirituale e sta al Pastore capire se dietro al problema mentale c’è dell’altro. Perché il Pastore ha la capacità di intuire se il malessere mentale di una persona deriva da uno spiritual problem…».

Altro problema cioè, che si annida nell’anima che -se abbiamo ben capito- il disagiato mentale si è portato appresso dall’Africa senza saperlo? «Founding revelation…» dice Prosper, «è un dono che mi ha dato Dio: se la persona che soffre è o meno vittima di un passato che ora gli si ritorce contro, io posso capirlo. In Africa prima che arrivassero il cristianesimo e l’islamismo, la spiritualità indigena era legata all’animismo e dall’incontro tra queste diverse spiritualità sono nate religioni sincretiche come il voodoo che tra i suoi riti e credenze include anche la necessaria riparazione dei torti subiti».

Un migrante cioè potrebbe portarsi appresso una sorta di maledizione? «Diciamo un problema irrisolto, sì: la sua anima potrebbe essere stata danneggiata ma piano piano, con la preghiera, col tempo… la persona può guarire perché Dio è più forte del voodoo. Non tutti, ma molti guariscono».

Rete, senso di comunità e solidarietà tra membri della stessa chiesa Pentecostale possono in certi casi silenziare i fantasmi nel cervello. Anche più della chimica o dell’incontro mensile al Centro di Igiene Mentale. E il ruolo del pastore visto come guaritore, che in qualsiasi altro luogo ci farebbe sorridere, qui, proprio perché si intersecano dolori e traumi che non riusciamo a comprendere, è cosa seria. Perciò tanti migranti che, attraverso un sintomo psichico, esprimono un dolore morale, un malessere esistenziale, un senso di fallimento e per assurdo anche di colpa, arrivano a credere alle virtù di un dio che li liberi dalla vergogna. Allora benvenuti perfino fanatismo e superstizione se danno senso e ritmo alla propria esistenza. O no?

Lo chiediamo ad Antonello D’Elia presidente di Psichiatria Democratica: «presenze di antenati immanenti, vincoli familiari indelebili che ti seguono, ti abitano, ti perseguitano… quando il pastore Pentacostale mette in campo le storie personali, gli antecedenti culturali, i fattori etnici e religiosi, sta restituendo al paziente un qualcosa di tradizionale che di per sé, è già cura. Del resto il sentirsi oggetto di malevolenze, invidie, gelosie… fa parte a pieno titolo anche delle nostre culture tradizionali. Fenomeni in fondo non così lontani da noi: la nostrana iettatura per esempio ha sì altre radici storiche e culturali ma evoca un analogo mondo di immanenza dell’invisibile tra noi e la sua influenza sulle nostre esistenze. Povertà, smarrimento, conti aperti con il passato privato e collettivo, paura del danno sempre incombente, vendette e protezioni… tutto converge nel potere di influenzamento e della compresenza di uomini e spiriti nel mondo. E poi rendiamoci anche conto che utilizzare sempre e solo categorie diagnostiche come depresso, psicotico, ossessivo… non è che risolva: il rischio-diagnosi infatti è proprio quel mettere l’etichetta laddove poi il trattamento è sempre lo stesso: quelle due, tre classi di farmaci.» Il professor D’Elia, basagliano di ferro, chiude così il cerchio.
Che per cogliere gli aspetti variegati e compositi di certi disordini mentali la psichiatria possa dialogare con l’antropologia, la sociologia e l’etnologia, ci riporta alle ricerche interdisciplinari di Ernesto De Martino negli anni cinquanta sul tarantismo in Salento piuttosto che sulla magia cerimoniale in Lucania; una psichiatria culturale in definitiva, o diremmo oggi etnopsichiatria, che guarda alla condizione dei gruppi subalterni e oppressi che alla cultura ricorrono come memoria e come strategia di resistenza.

Sennò, senza farla tanto lunga e senza stressare ulteriormente Caritas, Emergency, pastori Pentacostali, Centri Sociali e psicanalisti di chiara fama, la terapia più efficace è banale e sotto gli occhi di tutti: permesso di soggiorno per tutti i clandestini. Sic et sempliciter.

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