Mancano sette miliardi per rinnovare i contratti della Pubblica amministrazione e non sono uno scherzo. Ce ne vogliono molti di più per finanziare la strategia, per la verità un po’ disperata, con la quale Matteo Renzi spera di vincere il referendum costituzionale. Per trovarli ci vorrà un miracolo: quello di sant’Angela Merkel.
Per la stragrande maggioranza dei futuri elettori, inclusi molti dei più attenti e informati, il braccio di ferro tra governo e opposizioni sulla data del referendum che ha animato (si fa ovviamente per dire) le prime settimane di agosto è un enigma. Ma cosa cambierà mai se si vota il 2 di ottobre o il 27 di novembre? Possibile che la sorte della Costituzione italiana dipenda da un paio di mesi in più di propaganda, sia pur tanto sfacciata quanto quella che una Rai mai così asservita va dispiegando dopo l’ultima epurazione?
Non è questione di qualche settimana in più o in meno, infatti, ma di quattrini. Nei progetti di Renzi l’ordalia elettorale dovrebbe cadere più a meno a metà dell’iter della legge di stabilità. Urge pertanto inserire in quella legge qualcosa che solletichi il portafogli degli elettori, avvertendoli peraltro che in caso di sconfitta del Sì e conseguente caduta del governo quelle strenne chissà che fine farebbero.
Va inserita in questa cornice l’introduzione della flessibilità nelle pensioni che, nonostante i limiti per non dire le fregature che probabilmente conterrà, si presta, almeno nei sogni di palazzo Chigi, a essere spacciata per mirabolante regalo ai pensionati per decenni massacrati. E’ finalizzata al medesimo obiettivo la riforma sulla quale Renzi ancora vuol scommettere: la riduzione della pressione fiscale.
Era già una partita difficile. Lo è diventata molto di più dopo gli ultimi dati sul Pil, che non registrano un incidente di percorso, una battuta d’arresto, ma certificano il fallimento della politica economica del governo Renzi.

L’uso della leva fiscale è diventato infatti determinante non solo per smuovere gli elettori che al momento non sembrano affatto intenzionati a correre in aiuto del premier, ma anche e soprattutto per provare a restituire energia a un’economia esangue. Impietoso, il New York Times segnala che anche in caso di vittoria nel referendum Renzi non sarebbe al sicuro, dal momento che senza uno shock vincente sull’economia perderebbe poi le elezioni politiche. Molto simile la diagnosi del Financial Times, squadernata a ferragosto. S’impone «un poderoso stimolo» all’economia, consistente, in soldoni, nell’«accelerare il taglio delle tasse sul reddito su vasta scala».
I tanti soldi di cui palazzo Chigi ha bisogno possono arrivare solo da un soccorso europeo di portata inaudita, cioè da una disposizione tanto flessibile da fare invidia ai giunchi. Matteo Renzi chiederà una flessibilità pari a 10 miliardi. Non è detto che bastino. L’argomento di cui dispone è noto: dopo di me il diluvio a cinque stelle, roba che al confronto la Brexit sembrerà una pioggerella primaverile. Anche da questo punto di vista, però, la situazione non aiuta il leader fiorentino. E’ vero che la minaccia del “salto nel buio” si è già dimostrata convincente a Bruxelles come a Berlino. Però è anche vero che la disponibilità della tolda di comando europea a cedere e concedere dipende almeno in parte dalla convinzione di puntare su un cavallo vincente. Tale è apparso Renzi fino alla verifica raggelante delle elezioni amministrative. Al momento, invece, figura come un’anatra irrimediabilmente azzoppata, il che nella migliore delle ipotesi renderà più sospirato e fitto di controlli l’aiuto della Ue, nella peggiore ne dimezzerà la portata.