A Buonconvento nel ’62 con Ferruccio Malandrini
L’anno è il 1962 è l’anno. Settembre è il mese. Il giorno è di domenica. Una domenica di settembre del 1962 a Buonconvento, come si legge, all’imboccatura del paese, sulla facciata d’una bella casa colonica eretta nel rispetto di canoni architettonici settecenteschi. Tre archi si aprono all’ingresso, e sali al primo piano dove, ai davanzali dei corrispondenti tre archi del ballatoio, sono ora affacciate due giovani donne. Osservano da lassù, incuriosite, il fotografo che armeggia la Rolleiflex sei per sei a pozzetto che ha tra le mani. Lì, sul piazzale antistante, dove le galline e i pollastri raspano e beccano tra qualche filo d’erba e la terra secca. Ecco ha scattato una fotografia e fa un cenno di saluto alle ragazze, quasi a scusarsi di aver interrotto la pace della loro mattinata domenicale.
Il fotografo è Ferruccio Malandrini. Ha trentadue anni. È appena arrivato da Siena, con la corriera. Si propone di impiegare bene le trentasei pose dei suoi rollini in bianco e nero nelle poche ore che ha a disposizione, in attesa del rientro a Siena, con la corriera che passa di nuovo da Buonconvento nel pomeriggio.
I trentanove scatti di quel giorno sono ora pubblicati in Buonconvento ’62. Una domenica in settembre il catalogo, con scritti di Roberto Barzanti, Pietro Clemente e Alessandro Pagni, che esce in occasione della mostra allestita nei locali del Museo della Mezzadria senese, a Buonconvento.
È lungo la strada che ne costeggia le mura, la Cassia, e non nelle vie trecentesche dell’antico borgo che Malandrini fissa pressoché tutte le immagini di quella domenica. La giornata è mite, chiara e sereno è il cielo. L’aria ha la trasparenza del sole di settembre
Su quel breve tratto della Cassia privo del traffico feriale di diporto, Malandrini ora cammina lento, ora sosta attento e imprime al suo sguardo i tempi del suo passo. Registra il transito di chi gli giunge accanto e si accompagna a lui. Ecco avvicinarsi in bicicletta, giacca e cappello delle feste, un signore di mezza età che si stupisce d’esser ripreso. Prosegue senza rallentare. Ha lo sguardo al momento volto altrove, una donna che pedala mantenendo con la destra un secchio vuoto assicurato al manubrio. Indossa un abito leggero, nero a pois bianchi. Sembra, pur nel dì festivo, occupata in qualche domestica incombenza. Torna a casa che, per sicuro, è poco lontano. Sta per passare davanti alla stazione di servizio con vasta autorimessa e distributore di benzina da poco inaugurata. Lo conferma il lindo intonaco bianco e, nuovo di zecca, il disco stellato con la scritta Caltex che, al sommo d’un’asta, si staglia in alto.
Malandrini, da questi brevi cenni che faccio mentre sfoglio le pagine del suo album fotografico, si intende che conferisce alla serie delle trentanove fotografie il carattere di una sequenza che osserviamo, se così posso dire, tenendo il passo del fotografo, standogli al fianco. Se ne cava il sapore come di un corto documentario cinematografico. È inevitabile allora registrare il tenore di queste immagini quale risulta dal loro insieme. Si tratta, infatti, non di una serie di scatti che restano fissi, ciascuno nella propria compiutezza, e che inducono dunque ad una lettura ‘ferma’. Al contrario. Ciascuna fotografia vale quale un fotogramma che chiede d’essere coniugato con gli altri, e così descrivere un movimento a radunare insieme, che tutti li coinvolge dando loro senso. Solo così, ritengo, è possibile apprezzare nel suo elevato livello questa lezione di arte della fotografia di Malandrini.
Ha scritto Roberto Barzanti che il ‘reportage’ di Malandrini è esemplare per «il sobrio lirismo che ingentilisce l’appuntamento e permea sovente in immagini che nel taglio non ambiscono a inflessioni oblique o a sgarbi espressionistici. Il tono è quello medio di una stramba banalità. Il formato Rolleiflex, oltretutto, consiglia inquadrature dall’equilibrio centralizzato». Dunque arte fotografica, non cinematografica, naturalmente. D’un andamento cinematografico insito in questo Buonconvento ’62 è necessario tener conto, ma intendendo come esso metta capo a una forma fotografica di ‘tempo’.
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