A Bergamo jazz lampi di musica radicale
Festival Sold out alla tre giorni orobica per un cartellone che insieme a concerti interlocutori ha proposto tre imperdibili set: Fred Wesley, The Nels Cline Singers e i Palatino
Festival Sold out alla tre giorni orobica per un cartellone che insieme a concerti interlocutori ha proposto tre imperdibili set: Fred Wesley, The Nels Cline Singers e i Palatino
Bergamo Jazz è un festival che bisogna saperlo prendere. Tornato a essere un’istituzione, le musiche che vi si suonano non hanno importanza. Il sold out alle tre serate del Teatro Donizetti è garantito. Quasi tutti abbonati. La partenza quest’anno è particolarmente difficile per quanto riguarda la qualità musicale. Dopo la prima serata uno è tentato di prendere il primo treno della notte per tornarsene a casa, brontolando tra sé e sé «ma cosa ci sto a fare qui». Poi quell’uno o più di uno rimane e spera che qualche buona sorpresa o almeno un po’ di goduria saltino fuori. Infatti.
Nella prima serata al Donizetti si pone un quesito: perché un batterista raffinato e intelligente come Jeff Ballard, si è gettato in un’impresa disastrosa come quella di questo gruppo Fairgrounds (un live electronics, una tastiera, una chitarra, un pianoforte, una batteria)? Un po’ di funky scipito-con-pretese, un po’ di progressive, la noia la noia la noia, musicisti spaesati sul palco. Come mai? È la volta della diva più attesa di tutto il festival. Dianne Reeves, matronale e cortigiana. Timbro profondo, pronuncia ricca di tradizione soul nei bassi, belle salite di velluto nei medio-acuti, gran classe in un paio di canzoni solo un po’ variate, ad esempio un’incantevole Stormy Weather. Dopo si mette ad abbozzare un timido scat, non è il suo pane.
Dopo si dà a mezzi calypsi e bosse nove, ottiene dal pubblico il solito giochino call and response. Mestiere. Il giorno dopo, nel pomeriggio all’Auditorium, va in scena il Grande Bluff. L’avesse giocato lui, Vijay Iyer, in trio col bassista Stephan Crump e col batterista Marcus Gilmore, niente da dire, sarebbe stato furbissimo. Invece l’ha giocato la critica internazionale (con forti contributi di quella italiana). Così il pianista americano di origini indiane è diventato un mito. Basato sul niente. Fa quello che Francesco Cusa una volta chiamava «jezzetto». In assolo è scolastico, anzi pedestre. Il suono? Non esiste, e nel jazz non avere un suono, una propria sonorità, è grave. Iyer ce n’ha una morbidosa, da pantofole, qualunque. Va famoso per certi spunti minimal, che sono poi sequenze di arpeggi ripetuti con nessuna magia. Si riscatta per brevi spezzoni quando decide di offrire quel tanto di sapienza razionalista, neo-tristaniana, di buon livello.
Seconda serata al Donizetti. Ci dovrebbe essere sostanza. Di genere assai diverso. Il contrabbassista americano Michael Formanek ha messo su un quintetto ambizioso. Ha il grande Tim Berne al sax alto e altri tre partner non noti: Brian Settles al sax tenore, Jacob Sacks al piano (sarà la rivelazione del concerto), Dan Weiss alla batteria (sarà la disgrazia del concerto). Le tracce che definiremo tematiche ma che non lo sono perché si tratta di lunghe linee di suoni non strutturati in una metrica chiusa, evocano sempre una sorta di meditata desolazione. Si ascoltano con piacere certe introduzioni schönberghiane di Sacks e i suoi interventi solistici «informali» e discreti, con memoria cool e cultura di «contemporanea colta». Ma tutto è scritto, studiato, faticoso, nelle parti d’assieme e persino in vari assoli, tutto è poco vissuto, la freddezza non è una scelta di poetica ma una specie di imbarazzo, di incapacità di vivere musicalmente ed esistenzialmente il mondo di lentezze nichiliste (senza rabbia) di Formanek. Peccato. E peccato doppio che il leader non abbia capito che orchestrare sempre per unisoni una musica così complessa non è buona cosa e tantomeno lasciare che Weiss crei solo fastidio con commenti e accompagnamenti di dubbio gusto.
Arriva il ciclone Fred Wesley. Ce lo aspettiamo ciclone, almeno. Lunga storia di partner di James Brown, trombonista collaudato, messaggero settantenne di un funk robusto, trascinante. Gli uomini della sua band si chiamano The New Jbs. Il trombettista Gary Winter alla vista fa pensare a un ex farmer del Texas ora camionista o forse trafficante di qualcosa, il timido saxtenorista Philip Wack ricorda Balotelli quando fa finta di essere contrito. Lui, Wesley, è ciccionissimo, si muove con fatica, è spassoso e suona bene. Il resto della band comprende chitarra, basso elettrico, piano elettrico e acustico, batteria (l’ottimo Bruce Cox). Per un bel po’ se ne stanno cauti, vogliono fare troppo jazz. Quando si decidono a soffiare e scandire (e cantare con cori ruspanti) bei corposi riff, melodie di canzoni toste, la goduria c’è, la linfa vitale riprende a scorrere nelle vene.
E viene il terzo giorno. Alla «pomeridiana» dell’Auditorium il momento più importante di tutto il festival. The Nels Cline Singers, un trio. Nessuno canta (a parte un accenno a un certo punto, neanche un minuto), si fa una musica mirabilmente radicale. Nels Cline, chitarrista, cinquantanovenne, è il leader. Con lui due solisti «mostruosi»: Trevor Dunn al contrabbasso e Scott Amendola alla batteria. Avanguardia post-postrock, post-post-free. Psichedelia di nuovo conio, una musica che sarebbe piaciuta a Fausto Romitelli, lui pure su questa lunghezza d’onda. Misteriosi distanziati accordi di chitarra, frenetico impazzamento della batteria senza battiti, lunghe melodie di suoni autonomi del contrabbasso con archetto. Spettrali, demoniaci, psicotici, dionisiaci, sentimentali questi tre Singers. Cantano la vita elettrica, il modo di vivere elettrico. La tecnologia riappropriata che distorce e amplifica e cambia la natura del suono ma non mortifica il desiderio né gli affetti.
La serata conclusiva al Donizetti consacra la nuova stella del sax tenore, Mark Turner. E il suo «gemello» alla tromba, Ambrose Akinmusire. In quartetto, esibiscono un suono eccezionalmente limpido e un «legato» straordinario al servizio di una musica pacatamente inquieta. Seriosi, non azzardano una sola orchestrazione, una sola polifonia. Bravi e noiosi. Non così i quattro del redivivo gruppo Palatino. Paolo Fresu (tromba e flicorno), Glenn Ferris (trombone), Michel Benita (contrabbasso), Aldo Romano (batteria). A parte Fresu, giovane o quasi, sono vecchi leoni. Ferris strepitoso, Fresu in forma smagliante. Giocosi, sapienti, commoventi. In cerca di blues, tra l’altro, un po’ dimenticato qui a Bergamo. Classici? Sì, e allora? Suonata con questa intensità, la loro è musica dell’oggi più di tante.
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