90 mila al San Paolo
Cartelli di strada 90000 al San Paolo Arrivammo di mattino presto alla stazione centrale di piazza Garibaldi e imboccato il Rettilineo, coi negozi chiusi e vuoto di passanti, lo percorremmo per intero (un […]
Cartelli di strada 90000 al San Paolo Arrivammo di mattino presto alla stazione centrale di piazza Garibaldi e imboccato il Rettilineo, coi negozi chiusi e vuoto di passanti, lo percorremmo per intero (un […]
90000 al San Paolo
Arrivammo di mattino presto alla stazione centrale di piazza Garibaldi e imboccato il Rettilineo, coi negozi chiusi e vuoto di passanti, lo percorremmo per intero (un chilometro e mezzo) trovandoci in vista del porto. Nel pomeriggio c’era in programma Italia – Germania Est, partita da vincere per ottenere la qualificazione al mondiale di Messico ’70. Il decennio precedente si chiudeva dignitosamente per il calcio del ciuccio. Il presidente Roberto Fiore aveva portato la squadra appena risalita dalla serie B nelle posizioni alte di classifica con gli arrivi di Sivori e Altafini, simboli di Juventus e Milan degli scudetti a cavallo dei ’50 e ’60. Per deliziarsi delle giocate dei due oriundi sudamericani, i sostenitori napoletani gremivano gli spalti del San Paolo ogni domenica. Solo di abbonati, si toccavano numeri strabilianti: circa 70.000 su una capienza di 20.000 posti in più. Non avevamo ancora idea di cosa significasse provare il clima-partita in un grande stadio come quello, inaugurato dieci anni prima, riempito fino a scoppiare. Ci presentammo in largo anticipo alle porte. La zona di Fuorigrotta pullulava di tifosi affamati che si riversavano in trattorie iscurite dal fumo acre di cucine pronte a sfornare pietanze improbabili, per nome e per preparazione. Con due mezzi di filone imbottito di frattaglie, una bottiglia di gazzosa e il biglietto di curva dell’anello inferiore ci ritrovammo potenziali spettatori, fra i novantamila, di una partita più da immaginare che da vedere, restando tutti appiccicati in piedi. In punta di piedi, per sbirciare qualche ritaglio di gioco. La nazionale azzurra segnò tre volte, lo si capiva dagli oggetti che venivano giù a ogni gol dall’anello superiore. Ed era finito solo il primo tempo! Ma non ci furono più gol. Gol che, segnati o non segnati, nessuno aveva visto: ognuno smentiva ciò che affermava il suo vicino. Escluso il portiere Zoff, tutti gli altri dal numero 2 all’11 potevano essere stati i possibili realizzatori. Negli scampoli del secondo tempo Gigi Riva “rombo di tuono” sbagliò un calcio di rigore, così ci dissero. Il calcio era considerato uno sport tenacemente maschile e sulle gradinate non si scorgeva l’ombra di una donna. Volevamo riprendere la nostra libertà, all’uscita. Lo speravamo almeno. Ma il popolo dello stadio quando gioca la nazionale, si sa, è attaccato e compatto, sino in fondo. E tutti a precipitarci alla stazione dei Campi Flegrei collegata con i treni, in funzione di metropolitana di superficie, a Napoli centrale. Da dove salimmo sul primo espresso in partenza senza aver ben capito se ci avrebbe riportato nella nostra città. Apprendemmo chiaramente invece, dalla radiolina a transistor di un viaggiatore la cui sonorità da stadio (come se non bastasse) si propagava per l’intera carrozza, i nomi dei giocatori che avevano segnato.
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