8X1000, un Italicum a misura di Chiesa
La campagna Gli spot non raccontano tutta la verità: solo il 23% va agli «interventi caritativi». Paga anche chi non indica a quale confessione destinare il contributo. La sua quota è attribuita in proporzione alle scelte espresse dagli altri
La campagna Gli spot non raccontano tutta la verità: solo il 23% va agli «interventi caritativi». Paga anche chi non indica a quale confessione destinare il contributo. La sua quota è attribuita in proporzione alle scelte espresse dagli altri
I testimonial non sono attori e sono scelti con cura: c’è la suora missionaria in una baraccopoli di Addis Abeba, la comunità Progetto Sud di don Giacomo Panizza a Lamezia Terme più volte presa di mira dalle ‘ndrine, gli interventi di solidarietà internazionale della Caritas e la Consulta antiusura. Ma la nuova campagna pubblicitaria per l’8×1000 alla Chiesa cattolica – lanciata a metà aprile – racconta solo un quarto della verità. Precisamente il 23%: a tanto ammonta la percentuale che lo scorso anno (negli anni precedenti la quota era pressoché la stessa) la Conferenza episcopale italiana ha deciso di assegnare agli «interventi caritativi»: 240 milioni, su 1 miliardo e 32 milioni incassarti (116 milioni in meno del 2012, quando venne raggiunta la cifra record di 1 miliardo e 148 milioni). I tre quarti dei fondi vengono invece impiegati per l’edilizia di culto, la pastorale e la catechesi (420 milioni) e per gli stipendi di circa 33mila preti (382 milioni).
Quest’anno, al lungo elenco delle confessioni che già accedono all’8×1000 (cattolici, valdesi e metodisti, luterani, battisti, avventisti del settimo giorno, ortodossi, ebrei e pentecostali della Chiesa apostolica e delle Assemblee di Dio) si aggiungono altre due religioni non cristiane, che portano in dote almeno 200mila praticanti: Unione buddhista e Unione induista italiana. Totale 11. Restano fuori i mormoni (Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni) i quali, pur avendone diritto, vi hanno rinunciato. Il dodicesimo partecipante è lo Stato, ma non si fa pubblicità, per non disturbare le Chiese.
Mascherato come scelta volontaria, l’8×1000 è in realtà obbligatorio, quindi, di fatto, un finanziamento pubblico. Chi non sceglie paga lo stesso, e la sua quota viene attribuita in proporzione alle scelte espresse dagli altri. Considerando che a firmare per una destinazione è meno della metà dei contribuenti (circa il 45%), è la minoranza a decidere per tutti. Una sorta di Italicum applicato all’Irpef.
Il meccanismo, ideato ai tempi del Nuovo Concordato da Tremonti, allora consigliere economico di Craxi, Cirino Pomicino, presidente della Commissione bilancio della Camera, e il card. Nicora, venne concepito per favorire il più forte: la Chiesa cattolica. I Radicali hanno tentato di cancellarlo con un referendum che però non ha raggiunto le firme necessarie per poter essere svolto. Tutti, o quasi, ne traggono beneficio: solo Assemblee di Dio e Chiesa apostolica devolvono allo Stato le quote non espresse che gli sarebbero spettate (prima vi rinunciavano anche valdesi e battisti; dall’anno scorso hanno deciso di incassarle). Ma è il “primo partito”, la Chiesa cattolica, a ricavarne il massimo: nello scorso anno, grazie al meccanismo di ripartizione proporzionale delle quote non espresse, ha ottenuto l’82% dei fondi (nel 2007 era l’89,8%), nonostante meno del 40% dei contribuenti l’abbia scelta.
Come usano le comunità religiose i fondi pubblici dell’8×1000? Ovviamente come vogliono, la normativa di fatto non pone limiti. Dei cattolici si è detto: soprattutto per culto, pastorale e sostentamento del clero, solo una piccola parte per la solidarietà. Ma anche altri fanno scelte analoghe. La Chiesa luterana nel 2012 ha incassato quasi 3milioni e 500mila euro: 1milione e mezzo è stato speso per l’evangelizzazione, quasi 1 milione per i ministri di culto, 350mila per attività missionarie; per il sociale e la cultura sono rimasti 500mila euro, 100mila per pubblicità e spese di gestione. E l’Unione delle comunità ebraiche: degli oltre 4 milioni e 700mila euro ottenuti nel 2011 (ultimo rendiconto disponibile), 2 milioni e 848mila sono andati alle varie comunità ed enti ebraici presenti in Italia, 1 milione e 533mila è stato speso per attività culturali e didattiche, 340mila per la comunicazione. La Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia non fornisce cifre, dichiara solo che i soldi sono usati per culto, catechesi e «un sostegno anche materiale per le persone sole e per le famiglie più bisognose».
Di segno opposto le scelte delle Chiese valdesi e metodiste e delle Assemblee di Dio: non usano i fondi per il culto ma – a parte una quota intorno al 5% per le spese di gestione – esclusivamente per attività sociali, assistenziali e culturali, sia in Italia che all’estero, come documentano rendiconti piuttosto dettagliati (anche se, va detto, una parte di queste attività sono condotte dalle loro stesse strutture che quindi parzialmente si autofinanziano). Nel 2013, con l’aumento del consenso da parte dei contribuenti (570mila firme, 100mila in più del 2012) ma soprattutto per la decisione di trattenere le quote non espresse, i valdesi hanno quasi triplicato gli incassi, arrivando a 37 milioni (nel 2012 erano 14) e ponendosi nettamente al secondo posto fra le comunità religiose, sebbene a lunghissima distanza dai cattolici. Le Assemblee di Dio nel 2012 hanno ricevuto 1 milione e 165mila euro.
Anche battisti, avventisti e Chiesa apostolica spendono tutto per iniziative sociali, ma inciampano sulla trasparenza: tranne la segnalazione di qualche progetto spot, i rendiconti non vengono diffusi (da un vecchio bilancio si scopre però che nel 2011 gli avventisti percepirono 2milioni e 167mila euro, con cui finanziarono progetti sociali, formativi, educativi e culturali in Italia per quasi 2 milioni e progetti umanitari all’estero per 70mila euro, lasciandone 100mila per la campagna informativa e per le spese di gestione).
Di induisti e buddhisti si sa poco, se non che utilizzeranno i soldi sia per il culto che per progetti sociali, umanitari e culturali, come cattolici, luterani ortodossi ed ebrei. «Nella nostra comunità, i due piani si intrecciano», ha spiegato all’agenzia Adista Svamini Hamsananda Giri, vicepresidente degli induisti italiani, perché «destinare fondi alla costruzione di un tempio significa mettere in moto le attività che vi si svolgono», di culto ma anche sociali e assistenziali.
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