Il 24 marzo del 1944 i tedeschi uccisero 335 persone in una cava sulla via Ardeatina, a Roma.

Era una delle tante cave abbandonate che erano servite nei decenni passati per reperire il materiale di costruzione. Si doveva edificare la capitale del regno prima, e una grande città imperiale poi. Ma in quel giorno di 75 anni fa la città era distrutta dal fascismo, dall’occupazione tedesca e dai bombardamenti degli alleati. L’unica somiglianza con l’impero romano erano le pietre sbreccolate dei palazzi distrutti.

L’eccidio fu una rappresaglia per l’azione partigiana del giorno precedente in via Rasella. Una delle tante azioni di guerra aveva colpito al cuore il nazismo e 33 soldati del Polizei-regiment «Bozen» erano morti. I tedeschi lavorarono in fretta. Con la complicità delle autorità italiane asservite al nazismo presero più di trecento uomini (furono le donne a diventare loro malgrado le protagoniste della memoria di questo evento) in poche ore. Un giorno dopo erano tutti morti. Mani legate dietro la schiena, colpiti alla nuca e sotterrati da una montagna di terra.
Su questa storia si speculò subito. Si inventò una leggenda secondo la quale i tedeschi avevano affisso per le strade di Roma dei manifesti per avvertire tutti dell’imminente fucilazione. I partigiani, per impedirla, si dovevano presentare spontaneamente alle «autorità». Una menzogna.

E poi chiunque rifletta un poco capisce l’assurdità di questa possibilità. Quale soldato si presenterebbe al nemico dopo aver compiuto un’azione? Ma il caso non si pone perché i tedeschi non scrissero alcun bando e tutto accadde in pochissime ore.

A distanza di tanti anni si ricordano quei morti. È una commemorazione semplice. Non mancano le autorità, ma non è una cattiva notizia. Speriamo che partecipino con attenzione. Che riflettano sul valore di un rito asciutto. I 335 nomi vengono pronunciati uno dopo l’altro. Serve per ricordarci un tempo lungo che servì per uccidere i corpi ai quali appartenevano, ma soprattutto per dirci che avevano un’identità.

Quel nome se lo portavano in giro dalla nascita. Raccontava la loro famiglia, i genitori che glielo avevano dato, le tante persone che l’avevano usato per chiamarli, per parlare di loro, per ricordarsi la loro faccia, il loro mestiere, la loro passione.

I riti della nostra contemporaneità dovrebbero cominciare tutti così.

Gli esseri umani non sono numeri. Non sono corpi esplosi sotto un bombardamento americano o un razzo Qassam, morti di malattie curabili in terre dove non arrivano i farmaci o schiacciati da un camion sulla Promenade des Anglais. Non sono numeri quelli che non trovano lavoro, che non arrivano alla fine del mese. Non sono numeri quelli che arrivano dal mare al momento sbagliato, nel paese sbagliato che gli chiude i porti in faccia.

Ricomincia da questo rito. Facciamo i nomi!