Il bancone, piuttosto lungo, curvava verso il limite della parete dove si trovavano accostati due o tre sgabelli. Ci si doveva arrampicare per quanto erano alti, restando poi aggrappati al disco girevole della seduta di legno. Stavano sempre liberi, non ci andava nessuno ad appollaiarsi lì in fondo col rischio di cadere. Da lassù però la visuale dell’interno era totale, spaziava anche fuori delle ampie vetrate che separavano dalla strada. E chi ce la toglieva, al bar, quella postazione! Veniva dimenticata perfino da Gianni, il barman, servendoci per ultimi i bicchierini coi 40 gradi del mistrà. Funzionale, arredato alla moda, poco affollato, chiassoso quando la clientela domenicale sgomitava per riempire le guantiere dei dolci e allora non ci facevamo proprio vedere. L’apertura risaliva alla fondazione della piazza, su cui s’affacciava, prevista dal piano regolatore. Una piazza dall’estensione enorme, che mancava di un nome. La gente la chiamava «dei Trecentomila», ritenendo che avrebbe potuto contenere trecentomila persone: più di tre volte gli abitanti della città. L’aggettivo numerale, esagerato, le restò appiccicato per anni finché, definita urbanisticamente con edifici in stile modernista che ormai l’attorniavano, l’ufficio della toponomastica non le attribuì una denominazione ufficiale. Passarono le stagioni, molte; il bar con gli sgabelli alti chiuse battenti dopo vent’anni di strepitoso servizio mentre l’appellativo «Trecentomila» tramontò, diventando storia. Ci ha pensato qualcuno a rispolverarlo nel terzo millennio e ad attualizzarlo per un bar, aperto a due passi da quella piazza. Un bar? Abbiamo cominciato ad andarci, saltuariamente.

Forse procurava un certo disagio il ritrovarsi, cambiati nel fisico e nello spirito, in un ambiente che rimandasse all’atmosfera di quel primo bar già riferimento di una generazione sulla piazza «dei Trecentomila». Siamo tornati più spesso, in seguito, sedendo sopra un cubo basso, in pelle, col caffè amaro e un biscotto morbido al cocco. Un modo per riprendere a oziare, verso tarda mattinata, fra una parete-vetrina colma di gin da collezione e una gigantografia dei «Nottambuli»di Edward Hopper. Nel mezzo l’andirivieni, dal bancone ai tavolini, della gente nei bar. Solo che questo non è bar, ma un locale di tendenza, un «lounge» (fare salotto), e chi ci entra cerca di conformarsi al contesto. Il quale non viene alterato dal contrasto con le enigmatiche figure, perse nei pensieri e nella solitudine, del pittore americano. Certo, i frequentatori dei bar erano avventori anonimi; qualche tipo stravagante pure s’incontrava, ma rari i personaggi. Che nei luoghi di ritrovo oggi prevalgono. Anzi si è tutti personaggi, non appena varcata la soglia.