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«255 mila morti all’anno e una lobby che cerca di addomesticare le sentenze»

Il libro-inchiesta «Il silenzio dell’amianto», inchiesta su un killer silenzioso che uccide ancora

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 27 maggio 2021

Chiedi alla polvere quante vite ha tormentato, distrutto e annichilito. La nocività dell’amianto per la salute umana è un dato di fatto assodato. Seppur bandito in molti Paesi, resta però un business mondiale. E c’è stato un tempo in cui anche qui «c’era amianto dappertutto come una neve cinerina». Lo scriveva Primo Levi, parlando della cava di Balangero (Valli di Lanzo, provincia di Torino), nel capitolo «Nichel» de Il sistema periodico. Ed è un passaggio che Alberto Gaino riprende nel suo recente e documentatissimo libro-inchiesta Il silenzio dell’amianto (Rosenberg & Sellier), che affronta la vicenda sotto vari aspetti: dalle dinamiche economiche e scientifiche su scala internazionale alle tragiche storie italiane (Casale Monferrato, Broni, Taranto), con particolare attenzione al versante giudiziario, settore a cui Gaino – a lungo cronista de La Stampa e precedentemente collaboratore de il manifesto – ha dedicato tutta la sua carriera. «Lo scopo del mio lavoro giornalistico sul silenzio che circonda ormai la questione dell’amianto – scrive l’autore nelle prime pagine – è di richiamarne l’estrema attualità. Primo: per le dimensioni del disastro in termini di vite umane perdute». Ogni anno nel mondo muoiono 255 mila persone a causa della fibra killer. «Secondo: per i costi sociali che lo studioso giapponese Sugio Furuya segnala in 4 milioni di euro per vittima in base al Valore statistico della vita (Vsl). In terzo luogo, l’amianto non può essere considerato solo un’eredità del Novecento da archiviare rapidamente».

L’amianto ha tuttora un mercato mondiale apertissimo, non solo nel Terzo o Quarto mondo. Canada e Brasile ne hanno finalmente bandito produzione e commercializzazione, ma lo stop è fortemente minacciato da Bolsonaro e gli Usa hanno avuto un presidente, Donald Trump, che aveva promesso ai lobbisti di ridurre l’impatto dei risarcimenti alle vittime. Putin, dal canto suo, non l’ha mai abbandonato, minacciando di sanzioni commerciali Sri Lanka e Thailandia, che erano intenzionati a farlo.

E la potente e internazionale lobby dell’amianto – sottolinea Gaino – si è data da fare nel business delle consulenze per cercare di temperare le sentenze nelle aule di tribunali, dove si provava a perseguire le responsabilità delle morti. L’insigne epidemiologo Benedetto Terracini, in una lettera aperta a repubblica.it nel 2012, scrisse: «Nei tribunali italiani gli esperti consulenti della difesa non pongono più in discussione la cancerogenicità dell’amianto, ma dall’incompleta conoscenza degli aspetti biologici del processo di cancerogenesi traggono cavilli intesi a scagionare i loro committenti. Per esempio, che l’amianto colpisce solo i “geneticamente suscettibili” o che basta aspirare una fibra di amianto (magari in una scampagnata in una valle alpina) per morire di mesotelioma trenta anni dopo». Questa minimizzazione dei rischi, sostenuta anche da narrazioni mediatiche rassicuranti, fa parte di quella lotta di classe dopo la lotta di classe fotografata da Luciano Gallino: «La lotta condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente».

In Italia, il primo giudizio sulla pericolosità dell’amianto – riconosciuta in tribunale a Torino – risale addirittura al 1906. Poi, con il fascismo scomparve magistratura indipendente e con il boom economico i prodotti contenenti amianto trovarono un formidabile impiego. Ne conosciamo le conseguenze.

Nel nostro Paese si può stimare che, soltanto dal 1992 (l’anno in cui sono state messe al bando l’estrazione dell’amianto, la produzione di manufatti e la loro commercializzazione) al 2092, le vittime della polvere cinerina o bianca saranno più di 100 mila.

Il team del pm Guariniello aveva cercato una nuova via di giustizia, alzando il tiro e procedendo per disastro doloso nei confronti dei vertici dell’Eternit, ma la sentenza della Cassazione nel 2014, che considerò il disastro prescritto, lasciò amarezza. In particolare a Casale Monferrato.

Trentacinquemila abitanti e una grande macchia rossa sulla mappa italiana del mesotelioma maligno, circa 50 nuovi casi l’anno. Causa del male è l’Eternit, attiva a Casale da inizio Novecento; passata, poi, nelle mani del barone belga Louis de Cartier e, infine, del magnate svizzero Stephan Schmidheiny, che ben consapevole della nocività dell’amianto (lo testimoniano il convegno di Neuss del 1976 e il conseguente manuale operativo di Auls come parti integranti di una strategia di disinformazione) decise, in nome del profitto, di scaricarne i costi sul territorio. Anche attraverso il polverino che l’azienda paternalisticamente donava ai dipendenti estendendo così il disastro. La presa di coscienza nel mondo del lavoro avviene – non senza difficoltà – sul finire degli anni Settanta e a guidare la vertenza furono la Cgil locale e la sua appendice Inca, attraverso le persone di Bruno Pesce, Nicola Pondrano e Daniela Degiovanni, che «ebbero il merito di ricomporre la faglia fra il lavoro per quanto fosse nocivo e l’aspirazione di tutti a godere di buona salute».

Il nuovo processo, che si apre il 9 giugno in corte d’assise a Novara e che vede Schmidheiny imputato per omicidio volontario plurimo aggravato, «assume – sostiene Gaino – il segno di una resa dei conti finale fra gli interessi del “cartello” dei produttori di amianto e le vittime dell’uso industriale di questo minerale terribile per le conseguenze che può avere sulla salute delle persone esposte». Rispetto al maxiprocesso torinese, le vittime ambientali sono l’80%: il rapporto è ribaltato, prima erano soprattutto ex lavoratori dello stabilimento chiuso nel 1986; ora, si ammalano quelli che all’epoca erano bambini.

Il volume si dedica anche alla vicenda di Broni (Pavia), che fa i conti con il passato ingombrante della Fibronit, azienda del cemento-amianto. Con un tasso di incidenza di 100 casi ogni 100mila abitanti è il luogo d’Italia, insieme a Casale, con più vittime causate dall’amianto. Poi, si sofferma sull’Isochimica di Avellino, dove senza nessuna precauzione, negli anni Ottanta, si rimuoveva amianto dal parco rotabile di Ferrovie dello Stato. E ricostruisce la sofferenza di Taranto all’ombra dell’Ilva, nel quartiere Tamburi, dove i bambini si ammalano di cancro. E, infine, un focus sul caso Sardegna (Ottana, Nuoro), l’isola in cui secondo l’Inail non ci sarebbe stato amianto. Così, invece, non è.

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