Editoriale

1992, l’incubo peggiore per i «radical»

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La serie Punto di partenza: il 1992 è stata l’infanzia di un Paese nuovo («il futuro non è ancora scritto», recita il sottotitolo della serie Sky). Alla seduzione (e alla nostalgia) del «quando tutto era ancora possibile» è difficile resistere.

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 26 marzo 2015

Come si dice? La storia si ripete due volte: la prima in tragedia, la seconda in farsa. Per motivi di tempo Marx – che escogitò la frase – non immaginava una terza eventualità: che la storia potesse ripetersi in una serie americana.

Ora ce l’abbiamo anche noi. In 1992, da martedì in onda su Sky Atlantic, si rifà il primo anno di Tangentopoli. L’uomo Publitalia Stefano Accorsi si comporta come il Don Draper di Mad Man, il finto Dell’Utri (ma il nome è vero) è un cattivo tipo House of Card, l’aspirante soubrette Myriam Leone fa sesso coi potenti e senza veli, proprio come si vedrebbe su Netflix e su Hbo. Il leghista è un fascio disadattato reduce dall’Iraq con un retrogusto di ambiguità patriottica e disastro familiare alle spalle, tipo film di Clint Eastwood.

Punto di partenza: il 1992 è stata l’infanzia di un Paese nuovo («il futuro non è ancora scritto», recita il sottotitolo della serie Sky). Alla seduzione (e alla nostalgia) del «quando tutto era ancora possibile» è difficile resistere. Ma non sarà un caso se i pochi film che in Italia hanno raccontato quel momento in presa diretta sono stati comici, cinici e di grana grossa (Anni ’90 di Oldoini, Spqr dei Vanzina e poi cos’altro?). Il portaborse è del 1991.

Ed è precisamente qui che entra in gioco l’estetica delle serie americane. Che è fichissima. Nelle serie americane nessuno è mai completamente buono e mai completamente cattivo. Guidato dai propri istinti tiranni, alterna pose shakespeariane a battute da barzelletta. Alta la carica erotica (i bambini sono a letto, o guardano youtube sul tablet), cult il livello del trovarobato e dei costumi, la regia non risparmia soluzioni ardite. Le serie americane sono quella cosa in cui a ogni minuto uno sceneggiatore, un attore o un regista ti convince che sta facendo una cosa pazzesca, e ti strizza l’occhio. Tu strizzi l’occhio a lui. Le scene americane sono quella cosa in cui spesso la sceneggiatura è molto meglio della vita vera.

Pure gli sceneggiatori di 1992 ti fanno l’occhiolino. Esibiscono con civetteria i loro riferimenti (peccano di provincialismo? E il Rosi delle Mani sulla città allora dove lo mettiamo?) Citano un testo chiave della narrativa storica moderna come American Tabloid di James Ellroy, da cui proviene la struttura con i personaggi inventati che si muovono accanto ai personaggi veri. Che ci riescano fino in fondo è un altro paio di maniche ma fa parte del gioco.

Ogni imprecisione, ogni caduta di stile, ogni dialoghetto da sceneggiatore italiano, ogni oggetto sbagliato si ritorcerà contro di loro: la tv contemporanea vive in simbiosi con i social network, e il livello di sbeffeggio martedì sera è stato medio-alto. Però le somme, come sempre dicono gli allenatori di calcio, si tirano alla fine.

Sposteremo invece l’accento non sul «saper fare» (le serie americane, noi, in Italia, dopo Gomorra e Romanzo Criminale eccetera eccetera), ma sul «poterle» fare. A saperle fare prima, le serie americane, ci saremmo risparmiati tante menate sulla procura di Milano, la pacificazione nazionale, l’uscita da Tangentopoli, le discese in campo, Vespa, Fede, Liguori e tutto il resto. A poterle fare ci saremmo risparmiati tanta pessima televisione: i santi, gli eroi e le guardie forestali della fiction del ventennio.

Perché c’è una quarta possibilità rispetto alla Storia (e neppure questa il buon Marx avrebbe potuto prenderla in considerazione): che cioè la storia si ripeta come una fiction Rai/Mediaset. Incubo di ogni spettatore radical, di ogni sceneggiatore ambizioso, di ogni attore con pretese di contribuire alla crescita culturale del proprio paese.

Nella storia della narrazione televisiva italiana ci sono voluti vent’anni per poter pronunciare seriamente una battuta come quella di Dell’Utri sulla Repubblica delle Banane da salvare a tutti i costi. Ce ne sono voluti altrettanti per mettere in bocca a Antonio Di Pietro la frase: «Questa è Tangentopoli signori, rock’n’roll!».

Vanno messe a verbale, perché per noi equivalgono alle grandi sfide liberal che animano le migliori serie americane: tipo il vecchio padre che diventa trans in Transparent, o la famiglia ex rappettara criminale miliardaria di Empire, per citarne solo due recenti.

E va messa a verbale un’altra cosa: nelle prime due puntate di 1992 non c’è neppure un personaggio che possa dirsi di sinistra. Soltanto ex, sparsi, smarriti. Gli unici probabilmente appetibili per gli sceneggiatori di una ambigua serie americana.

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