1991, l’ultima frontiera del rock
Storie/Un anno cruciale che presto si tradurrà in un travolgente «rinascimento creativo» A segnare un cambio di marcia furono in particolare gli Stati Uniti con band come Rem, Nirvana, Pearl Jam e Alice in Chains
Storie/Un anno cruciale che presto si tradurrà in un travolgente «rinascimento creativo» A segnare un cambio di marcia furono in particolare gli Stati Uniti con band come Rem, Nirvana, Pearl Jam e Alice in Chains
Per lo storico inglese Eric J. Hobsbawm l’anno 1991 segnò la fine di un’epoca. I regimi comunisti europei erano collassati e si chiudeva l’era dei grandi cataclismi iniziata con la prima guerra mondiale. Era quello che definì, nel titolo di uno dei suoi saggi più famosi, Il secolo breve: gli anni delle trincee, dei genocidi, dell’atomica e della guerra fredda, ma anche gli anni del cinema, della cultura giovanile e del rock’n’roll. Hobsbawm era anche un appassionato cultore musicale e un autorevole critico di musica jazz, ma forse la sua cultura di musica rock contemporanea non era il suo punto forte. Nella sua opera non citava mai né Elvis né i Beatles ma, riferendosi ai Rolling Stones e al rock sentenziava: «Per quanto ne possiamo sapere, il ruolo o perfino la sopravvivenza nel ventunesimo secolo delle arti, oggi ancora vive, restano oscuri». Un’elegante forma accademica per chiedersi: «Il rock è morto?».
Tuttavia, in una strana configurazione astrale storico-artistico-culturale, trent’anni fa si assistette non solo alla discesa del sipario per un’epoca, ma anche a una svolta nella musica e all’inizio di un vero e proprio rinascimento. La fine degli anni Ottanta aveva portato nello showbiz musicale tanta incertezza, i dischi si vendevano a milioni, ma l’era della videomusica e l’imperante Mtv avevano reso il rock sempre più piatto e le produzioni pop più commerciali sembravano ormai aver tolto alla musica originalità, sincerità e sana rabbia giovanile. In Gran Bretagna l’onda new wave e post punk era in riflusso e negli Stati Uniti solo una rigogliosa scena underground locale ribolliva di idee. Alcuni movimenti, spesso concentrati in aree urbane, come il college rock e l’hardcore punk davano il segno di un fuoco che brucia sotto la cenere. Una band della Georgia sulle scene da diversi anni, i Rem, era riuscita a forza di recensioni positive, con il passaparola e con la promozione delle piccole radio ad arrivare a vendere un milione di copie con l’album indipendente Document nel 1987. «Siamo il nano più alto del mondo» aveva detto ai tempi il cantante del gruppo Michael Stipe. Ma il secolo breve era finito e con esso anche il secolo, brevissimo, del rock. Nel 1991, il fuoco che covava esplose in un vero magma creativo che cambierà per sempre il panorama. Furono proprio i Rem a dare il via a una stagione musicale straordinaria. Approdati a una major discografica, la Warner Bros. con l’album Green del 1989, nel marzo del 1991 pubblicarono Out of Time lanciato dal singolo Losing My Religion. Era il loro settimo album, ma per il grande pubblico furono una scoperta. Losing My Religion divenne uno dei singoli dell’anno e la band uscì definitivamente dall’underground con una raccolta di canzoni che ne ingigantì l’appeal senza smarrire creatività e originalità. Il disco venderà più di 18 milioni di copie e trasformerà il nano più alto del mondo in Godzilla.
SEATTLE
L’interesse per la musica che fino a pochi mesi prima era definita «alternativa» crebbe a dismisura. Le grandi etichette investivano su artisti lontani dalle mode mainstream degli anni Ottanta, capendo che esisteva un potenziale creativo (ed economico) inesplorato. L’attenzione si spostò sul nord-est americano e su Seattle dove una scena giovanile ricchissima aveva già iniziato ad attirare attenzione. Nella primavera del 1991 gli Alice in Chains erano la più importante band dell’area, i Soundgarden (sottovalutati ai tempi come epigoni dei Led Zeppelin) con Louder than Love erano approdati a una major discografica un anno e mezzo prima. L’etichetta locale Sub Pop era il vero motore della scena e aveva come artisti di punta una garage band chiamata Mudhoney. Tra le loro reclute c’erano anche i Nirvana, reduci dal successo di critica del loro album di esordio Bleach che però aveva venduto solo 40mila copie (ai tempi assai poca roba).
Il 17 aprile 1991 i Nirvana, ridotti a un trio guidato da Kurt Cobain dopo diversi cambi di formazione, erano a corto di soldi e avevano bisogno di contanti per andare a Los Angeles dove avrebbero inciso il loro secondo album. Organizzarono, frettolosamente, uno show in un locale di Seattle chiamato Ok Hotel, posto sotto un viadotto. Con un unico disco alle spalle, il loro repertorio era piuttosto ridotto e suonarono dal vivo un nuovo brano che non avevano ancora inciso, intitolato Smells like Teen Spirit. Il pezzo, scritto da Cobain nel tentativo di imitare una canzone dei Pixies (ai tempi uno dei nomi di punta della scena alternativa), era ancora un diamante grezzo. Ma chi era presente non se lo dimenticò. Kurt Bloch, un musicista di Seattle, ricorderà così la serata: «Fu uno show leggendario. Ci sono pochi spettacoli che definiscono dei generi musicali e quello fu uno. Ero vicino a Nils Bernstein (un discografico della Sub Pop) e iniziarono a suonare Teen Spirit. Nils e io ci guardammo: “Cazzo, ma questa canzone è incredibile!”». Ci vorrà però qualche mese perché quel brano fosse conosciuto dal mondo. Esattamente in quella settimana Seattle partoriva anche l’album omonimo dei Temple of the Dog, un disco tributo al cantante Andy Wood, frontman dei Mother Love Bone, morto di overdose. I Temple of the Dog non erano nient’altro che i Soundgarden e gli ex Mother Love Bone che avevano reclutato un altro cantante, Eddie Vedder, e ai tempi si erano battezzati con il nome di un giocatore della Nba, Mookie Blaylock, ma che presto cambieranno il loro nome in Pearl Jam. Hunger Strike, il singolo tratto da quell’ellepì divenne un successo di culto e contribuì ad aumentare l’attenzione sulla scena locale.
LOLLAPALOOZA
Intanto un’altra formazione che era stata determinante per l’emergere della musica indipendente, i californiani Jane’s Addiction, avevano annunciato il loro scioglimento, non prima però di lanciare un tour d’addio che si trasformò in un festival chiamato Lollapalooza. Accanto ai Jane’s Addiction comparivano Siouxsie and The Banshees, Nine Inch Nails, Body Count, Rollins Band, Butthole Surfers, Fishbone e Violent Femmes. «Erano tutti coinvolti al massimo – ricorderà Missy Worth, una discografica che lavorò all’organizzazione del festival -. Volevamo provare di essere più bravi di chiunque altro. Volevamo dimostrare che l’alternativo poteva diventare mainstream rimanendo alternativo».
Un altro evento aiutò però a cambiare la percezione di cosa fosse veramente popolare dando un’ulteriore spinta al cambiamento. Le classifiche americane iniziarono proprio allora ad adottare un nuovo sistema di rilevazione. Si passò da sondaggi telefonici a campione a una raccolta dati digitale che rendeva improvvisamente le classifiche più aggiornate e più accurate. Se prima le chart potevano essere manipolate attraverso negozi di dischi compiacenti e si cercava di privilegiare artisti già amati dal grande pubblico, ora i numeri non permettevano di barare. Fu un terremoto. Nel maggio del ’91, debuttò al secondo posto il secondo album Efil4zaggin dei gangster-rapper losangelini Nwa che vendette 900mila copie in una settimana arrivando la settimana seguente al primo posto. L’hip hop più violento dimostrava la sua incredibile forza commerciale, ma altri generi come l’heavy metal più fragoroso e il country cominciarono ad avere, da un giorno all’altro, una presenza massiccia nelle classifiche, dimostrando come fino ad allora alcuni ambiti artistici fossero stati deliberatamente trascurati dai criteri di mappatura delle vendite. Si sa che non c’è miglior pubblicità del successo, una prima settimana di vendite forti divenne il viatico per creare bestseller milionari.
Ad agosto i Metallica pubblicarono il loro Black Album. Lo speed thrash metal era ritenuto un sottogenere dell’hard rock che parlava a una generazione di ragazzini bianchi delle periferie. La band di San Francisco era riuscita, clamorosamente, a raggiungere il disco di platino con il precedente lavoro …And Justice for All, ma le radio lo avevano trascurato e si pensava fosse un fenomeno per liceali capelloni con le t-shirt nere e i giubbotti di pelle. Il nuovo capitolo della loro carriera li trasformò in una delle più grandi attrazioni musicali del pianeta. Il disco debuttò al numero uno nella classifica di Billboard e nella classifica inglese, vendette un milione di copie in due settimane.
Nel giro di pochi mesi le definizioni di cosa fosse musica commerciale erano state totalmente stravolte. I confini tra generi di nicchia e pop da classifica non esistevano più. Le scene locali erano diventate globali. La Epic Records, l’etichetta che aveva sfornato i maggiori successi dell’ultima decade con nomi quali Michael Jackson, Culture Club e Wham!, pubblicò il 27 agosto Ten l’esordio degli ex Mother Love Bone, ex Mookie Blaylock, i Pearl Jam. I membri della band, scottati dalle loro precedenti esperienze, non avevano grandi aspettative. Registrarono il disco al risparmio spendendo non più di 25mila dollari, con l’unico obiettivo di avere del materiale con cui riprendere a suonare dal vivo. «Abbiamo detto ai nostri discografici “Sappiamo di essere una grande band. Dateci solo l’opportunità suonare!”» ha ricordato in un’intervista il bassista del gruppo Jeff Ament. Anche per questo motivo il disco uscì in sordina, ma in un mondo musicale in cui c’era sempre più interesse attorno al rock che veniva da Seattle.
CALCOLI ERRATI
Il 10 settembre i Nirvana pubblicarono finalmente Smells like Teen Spirit come singolo, l’album Nevermind uscì il 24 settembre. Prodotto da Butch Vig e distribuito dalla Geffen, entrò nella classifica americana al 144esimo posto, ma l’etichetta si rese conto di aver sbagliato i calcoli. La richiesta del disco era superiore a ogni attesa e la Geffen fu costretta ad accelerare le stampe di nuove copie. L’album arriverà nella top ten. Smells like Teen Spirit sbarcò anche su Mtv, prima nella trasmissione dedicata alla musica alternativa 120 Minutes, poi in heavy rotation. La rivoluzione era iniziata. I Nirvana a novembre arrivarono in tour in Europa dove il loro successo non era ancora previsto e si esibirono in piccoli locali. In Italia suonarono al Teatro Verdi di Muggia (Trieste) al Bloom di Mezzago (Milano) e al Teatro Castello di Roma. Nevermind segnò un punto di svolta perché dava la sensazione dell’inizio di una nuova era. Da quel momento il rock perse il suo atteggiamento arrogante, machista (e sessista) comune a tante band anni Ottanta, riacquistò l’angoscia del punk in un contesto però di caustica ironia e voglia di partecipazione.
Il 24 settembre 1991 era un martedì, per gli appassionati di rock è diventato un giorno storico. Lo stesso giorno vennero infatti pubblicati Blood Sugar Sex Magic dei Red Hot Chili Peppers e Badmotorfinger dei Soundgarden. I Red Hot Chili Peppers come i Rem venivano da anni di underground e solo con l’album del 1989 Mother’s Milk erano riusciti a trovare più spazio nelle radio generaliste e nei canali tv musicali. Blood Sugar Sex Magic, il loro primo lavoro per la Warner Bros. prodotto da Rick Rubin, rese il loro accattivante funk rock dal piglio punk moneta corrente, regalando loro un successo internazionale che dura ancora oggi. Con Badmotorfinger dei Soundgarden si completava infine il trittico degli album che portarono il grunge ad essere la nuova musica e la nuova moda della cultura pop e Seattle divenne, come scrisse il magazine Spin, «la città che rappresenta nel rock di oggi quello che Betlemme rappresenta per la cristianità».
L’inizio degli anni Novanta sembrò riportare al centro della cultura popolare un movimento giovanile, o meglio, diversi movimenti giovanili. L’hip hop era la voce dei giovani afroamericani, l’heavy metal e l’hard rock (il ’91 fu anche l’anno di Use Your Illusion 1 & 2 dei Guns N’ Roses) si liberavano dall’estetica glam-hair-metal e rispondevano a una generazione di ragazzi bianchi delle classi medio alte che non si riconoscevano nel loro status, il grunge e il punk hardcore erano l’espressione dei figli della working class delle grandi metropoli americane. Ma l’opinione pubblica rimase sinceramente disorientata da questi movimenti cercando di semplificarli o renderli materia da rotocalco. O, peggio, di cavalcarli a scopo commerciale. «Se siamo arrabbiati allora vestiamo la nostra collera – scriveva un quotidiano italiano in quegli anni – da qui lo stile grunge: camicie di flanella, pantaloni tagliati, capelli incolti. Rigorosamente unisex. Lo sguardo è del tipo: “Sparami se vuoi, non mi importa”». Lo stesso quotidiano intitolerà: «Arriva il grunge, addio yuppie». «Per noi grunge significa non tanto libertà di vestire – dissero gli stilisti Dolce e Gabbana – quanto ritorno alla natura, alle cose vere, dimenticate, come i mutandoni di lana e le maglie della salute». In realtà «grunge» era un termine che derivava da una parola che indicava la sporcizia e che era stata usata come aggettivo, «grungy», nelle note di copertina di un disco della Sub Pop. Divenne poi un termine onnicomprensivo che identificò un movimento musicale che in realtà era assai eclettico. Ogni gruppo di Seattle divenne per definizione «grunge», ma nella stessa città dello stato di Washington in molti si chiedevano di che cosa si stesse parlando. Si iniziò a usare l’espressione «Generazione X» facendo riferimento a un libro dello scrittore canadese Douglas Coupland. Ma l’autenticità del dolore di interpreti come Kurt Cobain, che si uccise nel 1994, o Layne Staley, leader degli Alice in Chains morto di overdose nel 2002, fu ritenuta, da una parte di quel mainstream che li aveva consacrati, solo una finzione scenica e non venne compresa. «Non c’è giorno che passa in cui non provi rabbia – disse in un’intervista del 1991 Chris Cornell, frontman dei Soundgarden morto suicida nel 2017 -, dipende dalla mia incapacità di accettare le cose o di gestire il cambiamento. La rabbia è sempre la mia prima reazione». L’angoscia era reale e la musica era la risposta che davano al loro senso di inadeguatezza, forse anche per questo a trent’anni di distanza le loro canzoni suonano attuali e hanno conquistato nuove generazioni. «Non penso che una band debba mai scendere a compromessi – disse Cornell nella stessa intervista -. Non per un pubblico, non per una casa discografica. Perché non penso che un fan crederebbe in quello che fai».
PIETRE MILIARI
Ma il 1991 riservò altre pietre miliari per il mondo musicale. Il 12 novembre debuttò il rapper 2Pac con 2Pacalypse Now. Da questa parte dell’oceano i Primal Scream pubblicarono Screamadelica, fondendo il rock con il movimento dance della house music. Il 19 novembre gli U2 si confermarono una delle più grandi rock band del pianeta con il capolavoro berlinese Achtung Baby, destinato a vendere quasi 20 milioni di copie; lo stesso mese uscì Loveless degli irlandesi My Bloody Valentine, lanciando la scena «shoegaze», una risposta al grunge. A dicembre una piccola punk band californiana, i Green Day, iniziava a uscire dalla scena locale con l’album Klerpunk.
La musica rock e il pop erano destinati a non essere più come prima, non solo per le novità, ma anche per gli addii. Il 24 novembre 1991 nella sua casa di Londra moriva a 45 anni Freddie Mercury in seguito a una broncopolmonite aggravata da complicazioni dovute all’AIDS. Non si sarebbe riconosciuto in una nuova generazione di artisti che non avevano abiti di scena e rifuggivano da atteggiamenti teatrali e divistici. Ma nella cultura musicale di oggi convivono sia la teatralità del leader dei Queen che l’angoscia di Kurt Cobain e, per rispondere al dubbio di Hobsbawm, il rock, anche grazie a loro, è sopravvissuto nel ventunesimo secolo.
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