Il 1982 si ricorda per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio, ma anche per la guerra delle Falkland/Malvinas, per la strage di Sabra e Shatila in Libano, per Roberto Calvi e il Banco Ambrosiano, per le marce antinucleari in Usa, per il film ET di Spielberg, per la morte di Leonid Breznev in Urss e, pensando alla musica, per almeno quattro avvenimenti: i primi compact disc (inventati dalla Philips, ma messi in commercio dal neocolosso nippo-americano Cbs/Sony); il successo clamoroso di Thriller, album/canzone/videoclip di Michael Jackson; la Festa della Musica, nata in Francia grazie al tandem Mitterand/Jack Lang; l’ennesimo ritorno dei Rolling Stones dal vivo.

STRATIFICAZIONI
Il jazz? Un anniversario da commemorare? Andando indietro agli altri «anni due», mezzo secolo fa, 1972, a New York si parla di ritorno al jazz dopo un lustro di strapotere rock e soul, oppure nel 1962 si guarda edonisticamente al trend della bossa nova americana (chiamata jazz samba) o nel 1952 si pensa già al trionfo del cool (non ancora californiano) per quasi un decennio. Per il 1982, invece, senza grosse novità mediatiche, si assiste però alla crescita dell’idea di jazz come musica dalle tante sfaccettature, il cui l’evolversi non è più un work in progress scandito per decenni (e come tale canonizzato da quasi tutti gli storici), bensì procede, alla stregua di un corpus poliforme, per stratificazioni, aggiunte, parallelismi, incastri, fino a creare differenti stili coevi e addirittura tante diverse filosofie sul jazz, che lo rendono interessante e al contempo sfuggevole ai tradizionali ascoltatori.
Del resto, nel 1982, sta divenendo adulta quella generazione post-sessantottina – sfogatasi musicalmente attorno alle prime contestatissime edizioni dell’Umbria Jazz di metà Seventies – che vede nell’arte in generale (transavanguardia e postmoderno docet!) un recupero diagonale del passato e del presente, contro nostalgie o filologismi, ma proiettato verso un futuro per così dire realista, ossia attuale, lontano ormai dalle utopie che, nel jazz, solo pochi anni prima, culminano ad esempio a Chicago nell’Aacm, a New York nei Wallflowers di Sam Rivers, in Francia nell’etichetta Actuel, in Italia, per limitarsi a un caso emblematico nella rassegna Nuovo Jazz Italiano all’Università Statale di Milano.
In tal senso due raffinati solisti rappresentano al meglio lo spirito del 1982 in jazz: da un lato Keith Jarrett (pianoforte), dall’altro Wynton Marsalis (tromba). Il primo, con genitori ungheresi, dal New Jersey, all’epoca trentasette anni, si conferma jazzista al lavoro, in sincrono, su quattro fronti distinti: le piano solo improvisation dove mescola virtuosisticamente il proprio enciclopedico sapere musicale; lo standard trio con Gary Peacock e Jack DeJohnette che, nell’interplay, prosegue la lezione di maestri come Bill Evans da poco scomparso; l’interpretazione del repertorio classico occidentale spaziando, tra i secoli, da Bach a Shostakovic; variegate esperienze con altri jazzisti affermatissimi da Jan Garbarek a Charlie Haden.
Il secondo – afroamericano di New Orleans, in una famiglia di musicisti – dal padre Ellis ai più giovani fratelli Branford, Delfeayo, Jason – viene notato dall’anziano drummer Art Blakey, formidabile talent scout, in grado di rinnovare costantemente il proprio quintetto Jazz Messengers portavoce del miglior hard bop; il trombettista ventunenne ha il coraggio di lasciare una carriera sicura per esordire da solista proprio nel 1982 con l’omonimo album per la Columbia: e propone quel modern mainstream tra modale e nuovo bop (memore soprattutto dei dischi Blue Note), che nessuno pratica dagli anni Sessanta; in parallelo interpreta la musica barocca sei-settecentesca e in jam session improvvisa il dixieland nato nella propria città circa un secolo prima.
Da allora quasi tutti i nuovi jazzmen si dedicheranno a sperimentare tanti progetti contemporaneamente, ma soprattutto a considerare il jazz come una forma d’arte finalmente consegnata alla storia con la S maiuscola, benché non tutti all’epoca si rendano conto del lascito culturale che ormai la musica afroamericana è in grado di offrire, rielaborare, produrre dagli Stati Uniti all’Europa intera. In Italia ad esempio per la prima volta, da un noto mensile, viene indetto un referendum annuale fra una settantina di addetti ai lavori (critici, studiosi, giornalisti), per fare il punto della situazione; nel commento dei risultati, alla fine la redazione si esprime in questo modo in merito agli States: «(…) Un accentuato recupero del passato, quasi una riscoperta della classicità, con il ritorno ai valori timbrici e ritmici propriamente ‘neri’ (…) la sorprendente vitalità riscontrata nel settore vocale»; per la scena locale invece «si è apprezzato il grande numero di festival estivi che si sono svolti (anche se all’opposto, si è lamentata una carenza di avvenimenti nel periodo invernale)»; del resto l’avvenimento più votato, oltre il ritorno di Miles Davis nel nostro paese è Umbria Jazz (e in parte Sanremo Jazz), seguito dal costituirsi della nuova orchestra di Thad Jones (la Ball of Fire Big Band) e dalla morte di Thelonious Monk, che s’aggiunge a quelle di Wingy Manone, Sonny Stitt, Al Haig, Art Pepper, Shelly Manne, Cal Tjader, Gabor Szabo, protagonisti via via di swing, bebop, cool, latin, fusion.
L’Italia del 1982 vede inoltre Milano come una delle capitali europee del jazz medesimo, dove si concentra la maggior parte delle etichette e della case discografiche – Black Saints, Bull, Carosello, Dire, Fonit-Cetra, Horo, Pdu, Red Records, Soul Note, Vedette – a proporre jazz locale e straniero, che ha la possibilità di esprimersi dal vivo nei ben ventidue club attivi in città, tra cui vanno ricordati Bar Jamaica, Ca’ Bianca, Capolinea, Ciao Maria, Club 2 di Brera, Il Ponte, Studio 7, mentre in quello stesso anno apre i battenti Le Scimmie che in vent’anni di ininterrotta programmazione vede sfilare anche grossi calibri internazionali (come ad esempio i gruppi di Tim Berne, Mike Melillo e Paul Motian), mentre sono quasi di casa i nostrani alfieri jazz contemporaneo da Mario Rusca a Guido Manusardi, da Enrico Rava a Massimo Urbani, da Bruno De Filippi a Franco D’Andrea.
Ma il 1982, esattamente il 17 settembre, vuol dire anche nascita della Splasc(H), acronimo di «Società promozione locale arte spettacolo e cultura» completato con l’acca tra parentesi per ottenere, appunto, Splasc(H) onde distinguersi da un’analoga denominazione. In realtà nasce quale cooperativa che avrebbe dovuto intervenire nel sociale per mezzo di scambi culturali tra le città e la provincia, soprattutto, attraverso eventi teatrali; ma la nomina del jazzofilo Spagnoli, di professione artigiano tessile, alla presidenza della cooperativa, fa sì che l’interesse prevalente risulti fin da subito la musica. A partire dal primo album del catalogo Splasc(H), Lunet, sarà un continuum di uscite prima su lp poi in cd – fino a superare il numero di 900 titoli negli anni Duemila – guidate da un intento preciso: dare spazio alle voci più interessanti del giovane jazz tricolore che già sta evidenziando quei tratti di originale espressività ma che non trova effettive attenzioni da parte dei discografici tradizionali.

UN’ETICHETTA
E dunque in Valceresio, ad Arcisate, piccolo centro in provincia di Varese, Giuseppe Spagnoli, detto «Peppo» riesce a documentare il nuovo sound per oltre un trentennio con le uniche esperienze della fugace gestione di un negozio di dischi da un lato e dell’amore per la pittura e dell’arte tout court, che si traduce nel realizzare copertine in stile «action painting» facilmente riconoscibili da tutte le altre. L’etichetta nasce fra l’altro da una piacevole fatalità, quando in occasione del matrimonio della figlia, Peppo ha modo di parlare con Gianni Basso riguardo a un nastro in possesso del tenorista e che Tito Fontana, fondatore della Dire, non intende utilizzare. Trova quindi le informazioni necessarie per cimentarsi a produrre e stampare il disco: nel dicembre 1982, esce Lunet a nome del Gianni Basso European Quartet, con il tedesco Klaus Koenig (pianoforte) e gli svizzeri Isla Eckinger (contrabbasso) e Peter Schmidlin (batteria). Grazie al buon exploit commerciale, Spagnoli decide di proseguire pubblicando anche un inedito del 1981 dell’amico pianista Guido Manusardi: ma il fiasco parziale di Bridge into the New Generation «obbliga» il produttore a coinvolgere giovani talenti bisognosi di visibilità: e con Streams (1984) della cantante Tiziana Ghiglioni la linea editoriale e i concetti politico-culturali della Splasc(H) vengono definiti una volta per tutte: non più registrazioni di glorie del passato reperite più o meno occasionalmente, ma lavori ex novo di una fresca generazione jazzistica che guarda al presente e al futuro.

FUORI I DISCHI
Il 1982 nel mondo verrà forse ricordato per l’apertura (in realtà già avviata a settembre dell’81) del primo Blue Note a New York, per i trionfi di Pat Metheny, per la reunion del Jazztet con Art Farmer, Benny Golson, Curtis Fuller, per Jaco Pastorius fuori dai Weather Report, per l’ultima tournée europea del Modern Jazz Quartet e per la prima di Miles Davis (con John Scofield alla chitarra) dopo un lustro di assenza, per l’esordio discografico a proprio nome di Michael Brecker, Bobby McFerrrin, Peter Erskine, Stanley Jordan, Dianne Reeves, dei quali si parlerà a lungo durante gli interi Eighties.
Benché per alcuni maestri – Miles in primis – il 1982 sia un anno sabbatico in mezzo a iperproduzioni discografiche, l’elenco dei grandi jazz album del 1982 sarebbe lunghissimo, al punto che risulta difficile operare scelte indicative di un’annata fertilissima proprio in ciò che riguarda l’idea variata di jazz poliforme, prima accennata. I dieci album maggiormente osannati all’epoca, tra quelli registrati e diffusi durante l’anno solare, risultano senza dubbio 3×4 Eyes (Roscoe Mitchell), Destiny’s Dance (Chico Freeman), Roadgame (Art Pepper), Isis (Enrico Pieranunzi e Art Farmer), Four Pieces (Giorgio Gaslini e Anthony Braxton), Girl at Her Volcano (Rickie Lee Jones), When Elephants Dream of Music (Bob Moves), Grupo (Hermeto Pascoal), From Ragtime to No Time (Vienna Art Orchestra), Opening Night (Enrico Rava). Ma vale la pena indicare altri undici dischi, che rasentano i picchi dell’inventiva proprio per via delle tante direzioni eterogenee non separate dall’aspetto qualitativo.
Iniziando ad esempio con la neoavanguardia neroamericana l’album Portraits (India Navigation) di James Newton ribadisce come il leader sia tra i pochi, nello sperimentalismo, a dedicarsi a un solo strumento, per di più minoritario, il flauto, con cui in quartetto rende omaggio alla propria cultura afro e alla storia del jazz (David Murray, Charles Mingus, il predicatore) in quattro lunghi brani dalla estrema capacità dialogica, come suggerisce il critico Stanley Crouch nel booklet. Regeneration di Steve Lacy e Roswell Rudd, come già nel 1963 (School Days) e nel 1976 (Trickles), vede i due esponenti storici del free jazz bianco ritrovarsi assieme per un fitto dialogo in musica tra soprano e trombone all’insegna di un sound ardimentoso, che omaggia Thelonious Monk, con il supporto di una ritmica europea (Misha Mengelberg, Kent Carter, Han Bennink).
E a proposito di Europa Six of One (Incus) del britannico Evan Parker è un gran bel disco di solo sax: per il sopranista, all’epoca trentottenne, è la conferma del talento assoluto nella libera improvvisazione dal Vecchio Continente, dove alla furia solistica si accompagna il costrutto intellettuale, qui da leggersi come sei brani in uno o comunque il flusso di una medesima tipologia espressiva. E in Inghilterra esce pure Ancora da capo (Leo Records) del Ganelin Trio: è l’atto di nascita da parte di Leo Feigin (alias Aleksei Leonidov) dell’interesse verso il soviet jazz, censurato in Russia, ma che da Londra risuonerà in tutto il mondo: due performance di circa quaranta minuti con sonorità accese, vibranti, erculee, in cui vengono in tutto usati ben sedici diversi strumenti anche se i ruoli sono chiari: Ganelin tastiere, Tarasov ritmi, Chekasin fiati, tutti sulla linea paritetica del free jazz nero, qui applicato con vigore anche rispetto ad altre declinazioni.
Passando alla modernità boppistica Four in One (Elektra) degli Sphere, oltre ad essere un disco, segna pure un evento jazz epocale: come per magia, due ore dopo la morte di Thelonious Sphere Monk (alle ore 20 del 17 febbraio 1982) si riunisce in uno studio newyorkese il quartetto che rimane per oltre un lustro il più valido, rigoroso, appassionato continuatore dell’innovativo musicista: il gruppo Sphere vanta da un lato i due solisti più a lungo fedeli delle band monkiane, Charlie Rouse al sax tenore e Ben Riley alla batteria, dall’altro un paio di strumentisti vicini per anagrafe e sensibilità al bebop medesimo quali Kenny Barron e Buster Williams, oltretutto accomunati come il duo piano/contrabbasso più affiatato di quei tempi; insieme i quattro realizzano un ellepì notevole nel segno del maestro, senza però tentare inutilmente di copiare un sound inimitabile nell’approccio alla tastiera o nel modo di organizzare assolo, tempi, arrangiamenti. E bebop in fondo risulta pure Still Hard Times (Muse) di David «Fathead» Newman, sassofonista texano erede della musicalità blues sudista dei cosiddetti Texas Tenors, una lunga lista dei musicisti che inizia addirittura negli anni Trenta con Hershel Evans, Buddy Tate, Arnett Cobb, Illinois Jacquet e che, quando il jazz intraprende la via della sperimentazione trova il modo per esprimersi attraverso un sound in grado citare via via il rhythm and blues, il soul, lo swing, l’hard bop come in questo album dove, con Newman e la ritmica di Larry Willis, Walter Booker, Jimmy Cobb, si alternano grandi solisti quali Hank Crawford, Charlie Miller, Howard Johnson, Steve Nelson.
Fra i jazzisti emersi alla fine del precedente decennio, nel 1982 trionfano pure un francese e una band. Da un lato Michel Petrucciani con Estate (Ird Records) si riferisce, nel titolo, alla canzone da night di Bruno Martino che nelle mani del pianista, diventa uno standard straordinario, registrato più volte nel corso di una breve intensa carriera: Estate è anche l’unico titolo in italiano a cui faccia riferimento un album jazz (peraltro acclamato da pubblico e critica); e in questo caso acquista un senso particolarissimo, essendo molti i riferimenti del leader (tra l’altro di origini napoletane) al nostro paese: il primo degli otto brani in scaletta si chiama Pasolini e il trio è formato da Furio Di Castri (contrabbasso) e Aldo Romano (batteria), italiani all’epoca residenti a Parigi. Dall’altro lato Paradox (Columbia giapponese) degli Steps Ahead è il terzo disco del quintetto fusion con Mike Manieri (vibrafono), Michael Brecker (tenore), Eddie Gomez (basso), Don Grolnick (tastiere), Peter Erskine (batteria), per un sound concentrato su pochi lunghi brani (sei, più una lunga alternate take) dove largo spazio è dato all’improvvisazione a turno di tutti i componenti e dove la dolcezza melodica, la pulsione ritmica, l’esercizio timbrico convivono perfettamente: un classico ormai del jazz contemporaneo.
Non si possono infine dimenticare tre inediti recenti che, del 1982, scoprono eccezionali live mai pubblicati: Truth, Liberty & Soul (Resonance) di Jaco Pastorius dal 27 giugno a New York nell’ambito del George Wein’s Kool Jazz Festival, vede il geniale bassista elettrico coronare il sogno della propria vita, guidando una grossa orchestra nel tentativo riuscito di unire i suoni corposi della big band alla pulsione ritmica di scuola fusion su dodici pezzi spazianti fra Parker, Ellington, Marley. The Magic of 2 (Resonance) di Tommy Flanagan e Jaki Byard risale al 7 febbraio nel Keystone Korner di San Francisco; dopo l’introduzione del presentatore Todd Barkan i due pianisti partono subito con la grintosa Scrapple from the Apple di parkeriana memoria, per incedere altrettanto speditamente con le classicissime Just One of Those Things (Cole Porter) e Satin Doll (Duke Ellington), a cui seguono quindi altri momenti più riflessivi, insomma undici duetti tutti all’insegna di un ritmo scoppiettante e di un gusto improvvisativo. E in conclusione Live at Jazz Club La Mela-We’ll Be Together Again (Philology) di Massimo Urbani va un po’ in controtendenza alla saltuaria l’attenzione delle jazz label italiane verso i «maestri» scomparsi da pochi o molti anni: qui la pubblicazione è utilissima per ribadire come il tenorista, in quartetto con Marcello Tonolo, Giko Pavan, Francesco Casale a Ferrara in aprile, sfoderi, come sempre, grinta e idee che, grazie a improvvisazioni torrenziali, rivivono in un hard bop altrettanto vigoroso.