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1977, la storia ritrovata

1977, la storia ritrovata

Libri Intervista a Gianfranco Manfredi autore di "Ma chi lo ha detto che non c'è? 1977 l'anno del big bang"

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 23 settembre 2017

C’era un’assenza di narrazione storica del ’77 da parte di chi l’ha vissuto in prima persona. Ma chi ha detto che non c’è?- 1977 l’anno del big bang, il nuovo libro di Gianfranco Manfredi (copertina di Elfo) colma a 40 anni dall’anno simbolo una parte di quel vuoto. Edito da Agenzia X, grazie a un crowdfunding di €4.102, l’autore si immerge nelle ragioni di un movimento complesso e visionario, denso di creatività e desiderio, contraddizioni e conflitti radicali non sempre risolti. Scrittore, sceneggiatore di film e fumetti, cantautore, filosofo Manfredi parte dal titolo di una sua canzone emblematica del periodo per cimentarsi in una ampia ricostruzione collettiva per affreschi, anche soggettiva seppur distaccata, tendenzialmente storica. Da qui l’occasione per affrontare con lui alcune riflessioni sul ’77.

Una storia del ’77 scritta da un testimone attivo come te si connota subito come documentazione autentica di un’epoca importante, seppur ignorata o ridotta a caricatura. Quali ne sono stati per te i tratti salienti?

Ho cercato anzitutto di mostrarne l’aspetto internazionale, cosa che per il ‘68 si era fatta, per il ’77 assai meno, quasi fosse stata esperienza essenzialmente italiana. Poi mi sono sforzato anche di andare al di là della documentazione strettamente generazionale, infatti il libro comincia da chi nel ’77 stava nascendo o era appena nato, cioè dai bambini. Nasceva il “mercato dei bambini” che non significava soltanto prodotti destinati ai bambini, tramite le famiglie, ma lo sviluppo della figura del bambino come consumatore attivo, come soggetto di consumo. Ricordo anche brevemente quelli che nel ‘76 e nel ’77 se ne sono andati, lasciando comunque una traccia importante. Personalità molto diverse tra loro: Mao, Maria Callas, Elvis Presley, Groucho Marx. Racconto di inattese e apparentemente bizzarre militanze, come ad esempio l’avventura di Brigitte Bardot (non certo di sinistra) con Greenpeace per salvare le foche. Insomma il libro è scritto per voci e per frammenti tematicamente connessi, ma estremamente variegati. Il tratto più saliente del ’77 è stato che quell’anno è stato densissimo di contraddizioni.

Fra queste c’era l’idea di lotta armata, come ricorda “il mitra lucidato” della tua canzone che dà il titolo a questo libro. Eppure c’era molto altro che l’etichetta “anni di piombo” usata da troppi storici e giornalisti oggi distorce e nasconde, ti pare?

Nel libro chiarisco il senso della frase sul “mitra lucidato”. Si riferiva alla voce circolante secondo la quale gli ex partigiani, nell’eventualità di un colpo di Stato, si tenessero pronti e avessero disseppellito armi imboscate, oliandole nei giorni festivi. Il riferimento era a quello e infatti alcuni ex partigiani (non necessariamente comunisti) si felicitarono privatamente con me per il riferimento, fosse o no autentica la diceria. L’etichetta “anni di piombo” purtroppo è una trappola in cui siamo caduti anche con la pubblicistica sugli anni 70 e sul ‘77 in particolare, accettando di parlare soltanto di quello, mentre il movimento del ‘77 ha espresso molto di più e d’altro. Non che trascuri l’argomento “lotta armata” nel libro.

Dal gruppo Gramsci a redattore della rivista di controcultura Re Nudo a cantore dell’area dell’autonomia, quali sono stati i tuoi riferimenti politico-culturali di quel periodo?

Gli stessi del movimento generalmente inteso. Assai vari, ripeto. Ho cercato di dare conto di questa ricchissima varietà più che dei percorsi uniformi e univoci, dei contributi diversi più che dei tratti simili. Culturalmente passo in rassegna molti romanzi, saggi fondamentali, film (non solo quelli d’autore, anche quelli di consumo, di genere, inclusi i porno), trasmissioni radiofoniche, musiche (incluso anche John Cage, Anthony Braxton, Astor Piazzolla, per esempio).

La nascita e diffusione delle radio libere, che non a caso trasmettevano molto anche i tuoi dischi, hanno contribuito a diffondere in modo capillare e a far interagire tutte queste componenti. E poi?

Come scrisse Furio Colombo, si rinnovò in profondità il linguaggio radiofonico, ma io considero anche le innovazioni portate da Arbore e Boncompagni e quelle delle radio cosiddette commerciali come Radio Milano International. Se si parla di linguaggio bisogna parlarne in modo non politicamente ristretto perché il linguaggio mediatico riguarda e ci influenza tutti, come hanno ampiamente dimostrato gli anni successivi.

Anche i fumetti, penso in primis a Cannibale e a Andrea Pazienza ma anche alle tavole splendide che arrivavano dalla Francia di Métal Hurlant e Moebius, hanno illustrato l’atmosfera incerta del ’77. C’è un filo che ti porta a diventare anche sceneggiatore di fumetti quali Magico Vento e Shanghai Devil?

Negli anni ‘70 tra fumetti e musica c’era un legame non casuale. Per esempio la copertina dell’album Passpartù della PFM (di cui avevo scritto i testi) era opera di Andrea Pazienza. Già prima, il mio album d’esordio (La crisi) era stato illustrato in copertina da Guido Crepax. I fumetti nei settanta avevano anche usi “situazionisti”, per esempio la fanzine underground Robinud metteva battute ironiche quanto “rivoluzionarie” in bocca a Tex o a Topolino. Il mio passaggio ai fumetti, negli anni ‘90, però non c’entra nulla. Ha avuto altre motivazioni, anche d’occasione, e ho sempre cercato di scrivere fumetti “trasversali” nel senso di usare un linguaggio narrativo popolare e rivolto a tutti, senza derive “ideologiche”. Del resto non erano ideologici nemmeno i fumetti di Métal Hurlant. Esprimevano un punto di vista forte, ma si tenevano il più lontano possibile dalla propaganda.

Il concetto di lavoro come valore fu messo fortemente in discussione dal movimento. Come si stava modificando secondo te il rapporto dell’individuo con il lavoro? Non pensi che certe teorizzazioni del non-lavoro possano avere aperto la strada alla precarizzazione generale che c’è oggi?

Il tema della precarizzazione era ben presente già allora e dipendeva dallo sviluppo del capitalismo, non certo dal dibattito teorico. Socialmente era una condizione reale, non un’ipotesi. Sapevamo benissimo di essere già precari. Non per niente si parlava dell’Università come “riserva indiana”. Era la disoccupazione il non-futuro che ci attendeva, ne eravamo consapevoli, lo scrivevamo sui muri e sui cartelli, lo cantavamo nelle canzoni. Riguardo al rifiuto del lavoro, l’ho raccontato a partire da alcune testimonianze di operai di fabbrica riportate in un libro inchiesta dell’operaio scrittore Vincenzo Guerrazzi. Lo scontro tra l’epica (e l’etica) del lavoro precedente e il rifiuto del lavoro salariato di quegli anni, sono estremamente trasparenti anche nell’esperienza del punk inglese. Ho poi cercato di documentare il nuovo lavoro del “fai da te” e le nuove importanti esperienze che venivano dal mondo giovanile, per esempio la prima fase di esperienze di hackeraggio che hanno consentito a Bill Gates e Steve Jobs di passare rapidamente dal garage di papà allo status di miliardari, e tantissimi nuovi mestieri “inventati” o completamente ricreati.

In che modo, secondo te, l’ironia ha caratterizzato il linguaggio del ’77 fino a esprimerne la visione critica su politica e società?

L’ironia è senso dell’ “opposto”: ogni cosa ha il suo contrario. Il pensiero unilaterale, dogmatico e/o staticamente manicheo non conosce ironia, né umorismo. Senza senso del “contrario” non esiste movimento, che è sempre movimento tra opposti. L’ironia ha ben espresso l’anima del ’77.

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