Head Hunters è il titolo di un album e successivamente sarà anche il nome della band vivacissima che vi suona con Herbie Hancock alle tastiere e alla direzione e con Bennie Maupin (ance), Paul Jackson (basso), Harvey Mason (batteria), Bill Summers (percussioni). Hancock risulta ovviamente il deus ex machina di un’operazione discografica che gli frutterà circa un milione di copie nel solo 1973, facendo di quell’anno un punto di svolta per la storia della musica jazz. Con Head Hunters il sound che rappresenta – il jazz rock o rock jazz non ancora chiamato fusion – assume dimensioni vicine a quelle del pop, catapultandolo tra gli album più suonati, venduti, citati, esibiti in assoluto: del resto, negli Usa, per le nuove sonorità è una stagione intensa, che viene anticipata già tre anni prima con il doppio lp Bitches Brew, in cui il trombettista Miles Davis per la prima volta adopera strumenti amplificati (e talvolta etnici), incrociando le strutture espressive del modale, del free, dell’hard bop, con la psichedelia, il soul, il funk, le culture orientali, persino la ricerca elettronica dotta, oltre lavorare moltissimo sulle potenzialità degli studi di registrazione, soprattutto in fase postproduttiva, dal collage delle parti improvvisate a ulteriori tecniche laboratoriali, che gli ingegneri del suono impiegano regolarmente con i 45 e 33 giri di pop music.
Il Miles Davis cosiddetto elettrico fra il 1969 e il 1975 – poi, per un lustro, si ritira dalle scene – pubblica tantissimi album soprattutto doppi e live ma, quasi per paradosso, nel 1973 la sua casa discografica fa uscire due vinili molto diversi fra loro: il primo In Concert consta di circa ottanta minuti di musica ininterrotta che simbolicamente marca quasi il limite oltre cui il jazz rock può spingersi, all’insegna dunque di un funk informale dall’ossessivo sperimentalismo (mai più ripreso dai jazzisti); il secondo Live at the Plaza, per contro è un inedito dal vivo datato 9 settembre 1958 con lo straordinario sestetto di Kind of Blue (John Coltrane, Cannonball Adderley, Bill Evans, Paul Chambers, Jimmy Cobb) quasi a esaudire le richieste degli ascoltatori meno giovani che vorrebbero di nuovo sentire il trombettista in acustico. In effetti la Columbia Records sta preparando il ritorno in scena del Golden Quintet con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams, ma per gli impegni dei singoli l’appuntamento è posticipato al 1977, in piena crisi davisiana: Miles viene sostituito da Freddie Hubbard e il gruppo, con il logo V.S.O.P. pubblicherà tre live (The Quintet, Tempest in the Colosseum, Live under the Sky). Ma nel 1973 i «davisiani» di prima e durante Bitches Brew sono ormai autonomi e alla testa di nuovi gruppi jazz rock con alto tasso avanguardista in grado però di soddisfare le masse giovanili che accorrono ai loro concerti o acquistano i loro album, come si va facendo con i migliori protagonisti del prog inglese ed europeo, del country rock americano, del funky soul afro che, sempre in quel 1973, offrono risultati grandiosi (pensando ad esempio a Genesis, Neil Young, Stevie Wonder).

ORGANICI APERTI
E parlando quindi di jazz rock il 1973 non è solo l’anno di Hancock che licenzia pure l’ardimentoso Sexant (quasi una premessa a Head Hunters) e la colonna sonora The Spook Who Sat by the Door. Ci sono tutti, a partire dall’accoppiata Wayne Shorter (sassofoni) e Joe Zawinul cofondatori dei Weather Report che, al terzo album, con Sweetnighter, addolciscono il loro tratto progettando la tipologia di fusion comunicativa ed etnicheggiante che varrà da modello fino a metà degli anni Ottanta. Anche Tony Williams (batteria) ha la propria band, Lifetime, dagli organici cangianti, che, nel 1973, presenta l’eclettico The Old Bum’s Rush, forse il 33 giri meno interessante fra i capolavori degli ex davisiani a partire da Light as a Feather: si tratta del secondo lavoro dei Return to Forever di Chick Corea (tastiere) qui con Stanley Clarke (basso), Joe Farrell (flauto), Airto Moreira (batteria), Flora Purim (canto) con diverse tracce vocali e quindi con sprazzi melodici; diverso rispetto all’aggressività tutta strumentale, sia pur adombrata di misticismo, della Mahavishnu Orchestra del chitarrista John McLaughlin assieme a Jan Hammer (synth), Jerry Goodman (violino), Rick Laird (basso), Billy Cobham (doppia batteria)
Nel 1973 sono ben due – Birds of Fire e Between Nothingness & Eternity – i graditissimi album della band più rumorosa dell’intero jazz rock (che di proposito all’aperto si esibisce con volumi altissimi, superando in decibel molti dei gruppi hard rock allora di moda), mentre l’annunciato capolavoro Love Devotion Surrender, primo e unico incontro tra McLaughlin e Carlos Santana, con il beneplacet del loro guru indiano Sri Chinmoy, delude i fan di entrambi, nonostante l’esplicito tributo a John Coltrane, convinti che il virtuosismo dell’uno sovrasti quello dell’altro (o viceversa); benché a distanza di mezzo secolo resti su buoni livelli espressivi, l’album nel corso del tempo aumenta la propria importanza storica per il dare il via agli incontri discografici fra musicisti eterogenei, spesso tra loro avvicinatisi per curioso piacere edonistico. Anche Airto, che spesso si firma con il solo nome, oltre le numerose collaborazioni è molto attivo quale leader: nel 1973 firma l’apprezzato Fingers dagli influssi latini e brasiliani con l’apporto di una caliente sezione ritmica nonché della moglie (la citata Purim) e del polistrumentista Hugo Fattoruso. Anche il contrabbassista Ron Carter, tra innumerevoli eterogenei accompagnamenti – nel solo 1973 suona in Killing Me Softly di Roberta Flack, la cui title-track diverrà subito una canzone popolarissima – trova spazi e tempi per dedicarsi a una ricerca solista incentrata su un jazz rock raffinato, prima di tornare completamente al jazz acustico: suonando anche lo strumento elettrico, Blues Farm è un disco che un po’ anticipa il sottogenere straight, dove Carter fa tutto o quasi: compone, arrangia, dirige un gruppo di valenti musicisti che – tranne il batterista fisso Billy Cobham, coevo autore di Spectrum dalla fusion anticipatrice – a turno si alternano Hubert Laws, Richard Tee, Bob James, Gene Bertoncini, Sam Brown, Ralph McDonald, regalando buoni interventi solistici.

RICERCHE PERSONALI
Ci sono infine altri due davisiani che rifiutano il jazz rock per dedicarsi a ricerche personali che riporteranno il jazz già dalla seconda metà dei Seventies lungo i binari di un’ortodossia aperta a grosse novità: Keith Jarrett rinnova per intero la tradizione del piano solo e del piano jazz trio; Dave Holland, contrabbassista, propone, oltre un accompagnamento tecnicamente ineccepibile una leadership versatile. Nel 1973, per concludere, il Jarrett «giano bifronte» è recepibile tanto in Fort Yawuh dove stempera il free jazz in atmosfere liberaliste grazie all’apporto del cosiddetto american quartet con Dewey Redman (fiati), Charlie Haden (contrabbasso), Paul Motian (batteria), quanto in Solo Concerts, la prima delle «piano solo improvisations» (a seguire due anni dopo l’epocale Köln Concert) per integrare jazz, folk, classica; l’Holland di Conference of the Birds riunisce per la prima volta, assieme al fido batterista Barry Altschul, i due maggiori sassofonisti del momento, Sam Rivers e Anthony Braxton, rispettivi esponenti aframericani del post free e della creative music che per la prima e unica volta dialogano in quella che il grande Stuart Nicholson definisce come una dichiarazione definitiva di libera espressione swingante, in sostanza un ritorno alla dura disciplina dell’improvvisazione libera dei primi Sixties elaborando le basi melodiche nel principio del «time, no changes» per ottenere un maggiore controllo su quella preda sfuggente, chiamata «libertà».