«Sto lavorando, con Fellini e Tullio Pinelli, a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista». Si apre così, datata giugno 1958, la prima delle «note», come Ennio Flaiano le definisce, che sotto il titolo Fogli di via Veneto confluirono in La solitudine del satiro, il libro postumo che Rizzoli pubblica nel 1973, l’anno successivo alla scomparsa dello scrittore. «Il film avrà per titolo La dolce vita e non ne abbiamo scritto ancora una riga» continua Flaiano, che considera quanto, nel giro di men che dieci anni, via Veneto sia cambiata e come in questi ultimi tempi Roma «si è dilatata, distorta, arricchita. Gli scandali vi scoppiano con la violenza dei temporali d’estate, la gente vive all’aperto, si annusa, si studia, invade le trattorie, i cinema, le strade, lascia le sue automobili in quelle stesse piazze che una volta ci incantavano per il loro nitore architettonico e che adesso sembrano garages».
Quattro anni dopo, nel giugno del 1962, una nota gli è suggerita dalla lettura de Gli inganni, il romanzo di Sandro De Feo appena uscito. La vicenda si svolge nell’arco d’una sola giornata a Roma e Flaiano ne descrive la narrazione «come una folata di vento che trasporta polvere, foglie, cartacce e anche qualche materia imponderabile e preziosa, la nostra stessa vita, le illusioni inutili, una fatica di anni, l’amore per una città che è unica e che si lascia amare e detestare».
Gli incanti suscitati dalle piazze e dalle vie della Roma di «una volta» hanno decantato una sensibilità speciale, uno sguardo che seleziona e raffigura. Flaiano ne è consapevole. Stima che «la vera Roma è nell’ombra, si svela con gli anni e diventa un paesaggio della memoria, una parte di noi stessi: la più segreta e l’unica dalla quale può venirci una certa salvezza».
Ho trascorso questi Fogli di via Veneto tracciati nel decennio tra 1952 e 1962 quando si accelerano profondi e irreversibili mutamenti della città. Settanta anni dopo, oggi, quei processi di alterazione che già registrava Flaiano nel tessuto urbano e nell’umanità degli abitanti di Roma è giunto a compimenti clamorosi. Superfluo, credo, soffermarsi sulla Roma del 2024, almeno in queste righe. Preferisco tornare con Flaiano indietro, agli incanti romani di «una volta». Nell’ottobre del 1938 sulla rivista «Quadrivio» Flaiano pubblica un articolo, Scherzi di eccellenti fantasmi. Comincia così: «Le serate romane sono lente e dolci a passare, partecipano dell’eternità; il clima mite, la qualità rara delle strade e delle piazze, le ville che non hanno perduto la pazzia principesca, le fontane di così buona compagnia, fanno il fascino e la forza di queste serate, dalle quali c’è molto da aspettarsi a patto che non si voglia impiegarle ammazzando il tempo».
Salendo la scalinata di Trinità dei Monti, i soliti tre, quattro amici hanno l’abitudine di recarsi al Pincio. Si soffermano davanti a Villa Medici a guardare Roma, «l’infilata dei tetti, le cupole che si allineano nel buio e danno il senso di una città liquida che bordeggi un giardino». Si dirigono poi verso un «incrocio di vialetti dove le panchine essendo guardate da alcune erme di artisti della rinascenza, ci sembravano più adatte al nostro riposo, e il luogo stesso più degno di ascoltarci». Prendono posto nelle panchine sotto gli alberi e, sicuri dell’attenzione che i busti di Michelangelo, di Raffaello e del Sodoma rivolgono ai loro discorsi, si compiacciono che quei marmi prendano parte attiva alle loro conversazioni. È la presenza degli «eccellenti fantasmi» che li aiuta a chiarire i loro convincimenti sull’arte e la letteratura, scambiando le loro opinioni con quegli uomini illustri. A Roma, nelle «lente serate» non si deve «ammazzare il tempo»: così si ammazzerebbe Roma, la sua antichità che vive e muta come l’uomo, dice Flaiano, che «porta con sé infinite possibilità di metamorfosi, può conservare ancora qualche sua umana possibilità per il futuro».
1938, 26 settembre scrive all’amica svedese Lilli: «questa sera Hitler ha fatto il discorso e, naturalmente grande sensazione». E il «destino nostro di vivere negli intervalli tra una guerra e l’altra», le dice.
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