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1914-1918: la pubblicità va alla guerra

1914-1918: la pubblicità va alla guerra

Ultraoltre La moderna "democrazia delle merci" ha elevato anche il conflitto a un prodotto che ha bisogno di propaganda, così come le merci lo useranno per essere vendute

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 16 maggio 2015

Dieci milioni di morti. A costo di apparire cinici, la campagna di propaganda è risultata un incontestabile successo pubblicitario: la prima guerra mondiale è stata venduta al di là di ogni ragionevole speranza. Il tragico esito «commerciale» ha indubbiamente un’icona, ed è l’immagine disegnata da Alfred Leete che intima: «Your country needs YOU». Il volto severo, lo sguardo leggermente strabico di Kitchener, il dito puntato quasi come un revolver, s’insinua pericolosamente nell’immaginario novecentesco. Da subito, l’icona di Leete attraversa tutti i «mercati» delle nazioni belligeranti, e raggiunge una popolarità universale che si colloca nella nuova dimensione della comunicazione nella quale pubblicità, propaganda, e cinema interagiscono per vendere al meglio la guerra. A cavallo tra Ottocento e primi anni del Novecento, la réclame si rivolgeva a un pubblico certamente largo, ma non ancora aperto in tutta la sua estensione; è la fase in cui è l’acquirente che si avvicina alle vetrine o al manifesto metropolitano e non l’immagine-merce a raggiungere il privato del consumatore. La guerra totale apre necessariamente a un mercato totale, e la propaganda, come la pubblicità, si deve imporre su uno spettro amplissimo, determinato in larga parte dagli strati sociali più bassi che sono la grande manovalanza delle trincee e del fronte interno. Il messaggio deve essere ora in grado di trasformarci da spectateur ad acteur, da acquirenti passivi a soggetti attivi, e da operaio-massa a soldato-massa. In questo senso l’interpellazione diretta, sia grafica, che della scritta «YOU», ovvero lo «sguardo in macchina» di Kitchener-Leete, del fante italiano di Mauzan, dello Zio Sam di James Flagg, inverte la regola aurea della pubblicità il cui compito è persuaderci di aver bisogno del prodotto; mentre, al contrario, qui si dichiara che è il «prodotto» ad avere necessità dell’«acquirente»; in sostanza, non siamo noi a comprare bensì noi a esser comprati. Il manifesto di Leete vende la merce-guerra, costruita con un packaging spettrale, poiché invisibile, fatto di amor di patria, di senso del dovere, di colpa, e anche di un sottile machismo imperiale britannico (se non ti arruoli sei un codardo). Allo stesso tempo Kitchener compra il «soldato senza qualità», privo di specializzazione militare e considerato soltanto una quantità numerica. La moderna «democrazia delle merci» ha elevato anche la guerra a un prodotto che ha bisogno di pubblicità, così come le merci useranno parassitariamente il conflitto per essere vendute.
Quel «YOU» non è più però la ristretta platea di acquirenti formata dalle upper classes che arricciano il naso di fronte a un plebeo spettacolo cinematografico e non si fermano per strada a guardare i manifesti, ma il pubblico generico e involontario, spesso passivo, che popola l’ambiente urbano; la prima guerra totale deve vendersi alla massa. La formazione commerciale del consenso esige narrazioni nuove, efficaci, e capaci di conseguire effetti immediati, poiché il suo compito non è la costruzione di coscienze stabili, ma è di ottenere, se ne è in grado, risultati. Bisogna usare pertanto immagini facilmente riconoscibili, sfrondate da eccessi decorativi, leggibili senza dover ricorrere al testo, e accompagnate, nel caso dei manifesti o degli intertitoli dei cinegiornali, da messaggi scritti con semplicità e agevolmente comprensibili dal più vasto spettro sociale alfabetizzato. Il successo dell’icona di Leete sconfina immediatamente dai muri della Gran Bretagna per approdare mutante, ma sostanzialmente eguale, in moltissimi paesi belligeranti. L’internazionalizzazione dell’immagine dell’«I want YOU» è la più evidente manifestazione dell’omologazione globale dell’esperienza bellica moderna, una mondializzazione della comunicazione, guidata dagli anglosassoni, che disegna anche l’immediato futuro: la vittoria degli Alleati è quella della visione globale delle merci nella quale l’America è il motore, e dove la guerra industriale diventa il prossimo orizzonte dell’arte del vendere. La tragica irruzione dell’imperialismo del mercato nascondeva accuratamente tra le pieghe della retorica cocardier e dell’odio quasi razziale per il nemico il suo più profondo segreto: la «guerre fait vendre!». La pubblicità commerciale lo intuisce immediatamente e sfrutta con cinismo le opportunità offerte dal conflitto. Si pensi alla commercializzazione della memoria, delle tristi necessità dei mutilati, e persino dei cadaveri stessi. Appare macabro, ad esempio, il catalogo di vendita delle Chaussures orthopédiques Dupont che riporta sulla pagina di sinistra le scarpe per il solo piede sinistro e viceversa per il destro, mostrando di essere patriotticamente vicino ai «nos pauvres blessés» i quali, beati loro, non sono obbligati a comprare un paio completo, e in questo modo «risparmiano il cinquanta per cento». Con molta previdenza per i futuri affari legati all’elaborazione turistica del lutto, nel settembre del 1917, mentre continuava il massacro nelle trincee di Verdun e della Somme, André Michelin pubblica le «Guides Illustrés Michelin des Champs de Bataille», naturalmente non per fare affari ma per «rendere omaggio alla memoria degli eroi».
Già dal 1914, il poilu, il tommy, il fante, diventano i testimonial più preziosi e sono il principale vettore all’incitamento al consumo, perché fanno leva sul packaging della guerra e coinvolgono, colpevolizzandolo, il fronte interno. Con una grafica che abbandona progressivamente i richiami all’Art Nouveau e usa le forti campiture di colore monocromatiche permesse dalla cromolitografia, la pubblicità murale e a stampa insinuano bisogni che sembrano totalmente assurdi. Appare paradossale che i fantaccini non potessero vivere nelle luride trincee, dove si coabitava con cimici, topi e montagne di escrementi (la «piccola guerra», come la definiva Blaise Cendrars), senza il grammofono portatile prodotto dalla Decca, «the ideal gramophone for Active Service». Per lo meno stravagante è suggerire che contro la pioggia (di bombe) bisognasse indossare un «trench outfit» Burberry o Aquascutum che assicurava «a splendid coat for war work».
La pubblicità non aveva alcun freno e nessun pudore di fronte alla macelleria che avveniva al fronte. Era ironicamente spietato sostenere che una bici Triumph fosse utile per attraversare le trincee, evitando così, chissà come, il rischio assai probabile di essere centrati da una granata; ci voleva coraggio a sostenere che era indispensabile ai soldati il lucido da scarpe Papillon Noir per tenere sempre puliti gli scarponi, quando toccava loro stare lunghi periodi immersi nell’acqua o nella neve delle trincee, e quando, dopo dieci, quindici giorni di prima linea, si tornava nelle retrovie trasformati in un unico blocco di fango, sudore e sangue. Si reclamizzava il ricostituente vegetale Phoscao, specialità assolutamente inutile alla salute dei soldati e dei civili, ma utile, si sosteneva, per giungere più facilmente alla vittoria perché più efficace dei cannoni da 75 mm. Si consigliava ai «soldati senza qualità», quasi sempre analfabeti e squattrinati, di scrivere a casa con la costosa penna Parker o Waterman, magari col pennino d’oro. Nelle trincee segnate dal tempo degli attacchi suicidi, bisognava avere al polso l’orologio Lip («Lip… Lip… Hourra!»), oppure l’Omega retroilluminato perché il fante «per la sua sicurezza ha bisogno di conoscere l’ora esatta il giorno e la notte»; ma per gli ufficiali e sottoufficiali non bastava un comune orologio ci voleva il Chronographe Just per ottenere dalle truppe «il massimo sforzo senza fatica»; in questo modo i soldati «saranno sempre riposati e sapranno l’istante esatto di quando dovranno sferrare il colpo decisivo che dona la vittoria». Anche nel settore degli alcolici si raggiungono alte vette di impudenza commerciale. Alle truppe veniva somministrato in profusione alcol di pessima qualità, ma per la pubblicità avrebbero dovuto bere champagne Mousseux Augendre o brindare con l’aperitivo régénérateur Calisia. In un poster della Campari, un gruppo di fanti, in una fredda notti d’attesa, suona la chitarra alla luce di un fuoco (proibitissimo ed estremamente pericoloso di notte in trincea) bevendo l’aperitivo prediletto che nell’immagine pubblicitaria prende il posto del cannone, il tutto magari gustando la tavoletta al latte Talmone che il paziente mulo della pubblicità porta alle quote innevate. L’universo bellico messo in scena dai manifesti commerciali edulcorava senza alcun pudore la realtà molto più di quanto accadeva nei newsreels i quali narravano spesso un’altra guerra ma erano costretti pur sempre a elaborare immagini riprese «dal vero». Possiamo supporre le reazioni dei soldati davanti a tanto cinismo e lontananza dalla vita che quotidianamente erano costretti a vivere in trincea; probabilmente erano le stesse che essi avevano di fronte alle narrazioni dei factual movies che vedevano in licenza in qualche cinema di retrovia: un misto di incredulità e di ironia, quando non di esplicita rabbia. Sono anche queste le dinamiche che scavavano ancor più il solco tra il fronte interno e gli uomini che vivevano nelle trincee, due universi che venivano percepiti dai soldati come profondamente separati: da un lato l’esperienza di chi subiva direttamente la guerra, irraccontabile e difficilmente rappresentabile, e dall’altro il mondo degli «imboscati», dei profittatori, di chi faceva la bella vita e poteva desiderare di acquistare un impermeabile Aquascutum o una penna Parker. La pubblicità, d’altronde, non si rivolgeva a loro, ai poilus, ai tommies, agli alpini, che certamente, data anche la loro bassa estrazione sociale, non avrebbero mai potuto permettersi, né in pace né in guerra, di bere champagne Mousseux Augendre o di possedere un raffinato orologio Omega. I poster si rivolgevano ai civili sfruttando la guerra e al contempo diventando parte attiva e integrante della propaganda bellica: in definitiva la pubblicità si faceva propaganda così come la propaganda si faceva pubblicità; un diabolico intreccio costruito per vendere al contempo le merci e la guerra. Per ottenere coesione e partecipazione bisognava anche raccontare che la guerra era diretta espressione del popolo e non degli Stati, degli imperatori, dei regnanti. Raramente essi sono rappresentati in maniera esplicita e al massimo si concedono in fugaci apparizioni nei cinegiornali e nella propaganda, o restano confinati a una grigia e fredda firma tipografica. Si usano al contrario le immagini e le figure dei soldati semplici, delle donne operaie, delle mogli premurose che sollecitano il marito ad arruolarsi, e dei bambini, ovvero le cellule base della società. Il «popolo bambino» diventa uno dei protagonisti della mobilitazione e della commercializzazione, e viene usato con un’impudenza priva di freni. In un poster per il Natale del 1916 dei magazzini parigini «Au bon marché», la grafica moderna mette in scena una trincea di soldati bambini colpita da una granata che proietta in cielo giocattoli: è la guerra-gioco, in fondo innocua, come se a saltare in aria in mille pezzi a pochi chilometri di distanza da Parigi non fossero i corpi smembrati dei padri di quei ragazzini. Meno sfrontata è la pubblicità natalizia del 1917 dei magazzini «Au printemps», dove un sorridente Babbo Natale vestito da poilu e con la lunga barba bianca (un vero veterano…) sta consegnando i regali che, tranne due bambole, sono aerei da combattimento, cannoni, ambulanze militari, e soldatini. L’assenza di qualsiasi riferimento alla liturgia cristiana in tempi natalizi (e siamo all’inizio del Novecento), rivela la progressiva laicizzazione del consumo: sono le merci la nuova religione del Ventesimo secolo. La nazionalizzazione dell’infanzia si attua anche usando i bambini come agenti attivi della solidarietà patriottica. La loro immagine appare nella pubblicità-propaganda dei crediti di guerra e non solo a indicare ai genitori il loro compito, ma anche stimolando la raccolta delle paghette infantili. In un manifesto firmato da Lionne nel 1917 per la Banca Italiana di Sconto, un fante si appoggia sulle spalle di una bambina la quale alza verso dei soldati in marcia il suo salvadanaio. In Italia, ma anche negli altri paesi belligeranti, non si usano solo i muri, ma anche i giornali per l’infanzia, o il cinema. In un numero del 1917 del «Corriere dei piccoli», Aurelio Craffonara disegna un bambino che consegna a un soldato il suo salvadanaio, e la didascalia recita: «Porta il tuo salvadanaio perché papà ritorni presto vincitore», immagine subito usata nei manifesti e nelle cartoline illustrate. Il messaggio è rivolto sia ai bambini quanto ai genitori, e più che a risolvere il problema dei tragici bilanci di guerra con le misere paghette infantili costruisce il consenso identificando l’intero corpo della nazione con il corpo in guerra della patria, la «sublime madre nostra». Le modalità narrative sono semplici, a volte quasi fiabesche, perché la mobilitazione di massa comporta processi di infantilizzazione, e la propaganda si affina, usa competenze psicologiche e pedagogiche, e impara ad usare le tecniche comunicative della pubblicità, la quale ben sapeva rivolgersi alla folla. Ai bambini compete anche il compito di convincere il proprio genitore ad arruolarsi. Celebre è il poster disegnato da Savile Lumley nel 1915, nel quale, in una confortevole casa di un middle-aged British man, e in un tempo che si colloca dopo la fine della guerra, un padre è seduto in poltrona, il figlio gioca con dei soldatini, mentre la figlia, che sta leggendo da un libro gli eventi del primo conflitto mondiale, chiede: «Daddy, what did you do in the Great War?». Il padre non ha risposte e ha un’espressione attonita: evidentemente non si è arruolato. Pertanto, per salvare la reputazione, e non apparire in futuro dei codardi di fronte ai propri figli, non rimane che arruolarsi. Il manifesto di Lumley ha una versione canadese al femminile che colpevolizza le madri di non attivarsi per i loro mariti al fronte (ovvero sottoscrivere il Patriotic Fund). Lo slogan è la mutazione del manifesto britannico: «Dad’s at the Front. What are you doing for those he left behind?». Bisognava coinvolgere il fronte interno in tutta la sua ampiezza, donne comprese, ovviamente. Tocca loro supportare l’impresa bellica nella sua globalità, anche negli acquisti di prodotti autarchici. Esse non erano al tempo soggetti particolarmente interessanti per il mercato (era il maschio che generalmente comperava), ma c’erano alcuni prodotti di loro specifica competenza. Un manifesto dall’aria truce, con l’immagine di un teschio che indossa il pickelhaube (l’elmo chiodato tedesco) con sovraimpresso il disegno di una macchina per cucire, recita: «Donne francesi se acquistate una macchina per cucire straniera nutrirete per un anno un soldato nemico». Bisogna comprare pertanto machine à coudre francesi con la déclaration du pays d’origine prodotte dalla francese Hurtu per le donne francesi che le usano patriotticamente per cucire bandiere della Repubblica. In assenza dei mariti impegnati al fronte, compete alle mogli dipingere in bianco, blu e rosso i muri di casa con la peinture nationale, e da brave crocerossine preparare il caffè per i feriti con la caffettiera Silvio Santini, o acquistare scarponi del calzaturificio Varese da inviare al proprio uomo fronte, o comprare il sapone richiesto dal marito, che nel poster parte sorridendo per andare a combattere chiedendo: «Good-bye dear! You won’t forgot to send me Wright’s Coal Tar Soap». Esse possono però anche concedersi un impermeabile Aquascutum, elegante e anche perfetto per quei tempi pericolosi, e persino, cosa inaudita, fumare una Lucky Strike, o una Murad offerta da un bell’ufficialino voglioso.

Inoltre, per difendersi dagli attacchi criminali degli U-boote tedeschi, era caldamente consigliato, prima di mettersi in viaggio per mare, comprare «La brassière Perrin», autogonfiabile a bretelle che s’indossa in maniera invisibile e comoda sotto i vestiti, e assicura così alle signore la «certezza di poter attendere il salvataggio senza la triste prospettiva di aggrapparsi a un relitto o di affondare!».
Poco importava alla pubblicità commerciale che centinaia di migliaia di donne sostituissero (malpagate e sfruttate) gli uomini nelle fabbriche, nei lavori urbani come spazzine, spazzacamine, guidatrici di tram, e nelle campagne. La propaganda non le dimentica mai perché c’è un enorme bisogno del loro lavoro, ed è necessario arruolarle anche come crocerossine, trasformandole nei manifesti in angeli, mater dolorose, persino Madonne («The Comforter»), o usandole come testimonial per incitare i loro mariti ad arruolarsi («Women of Britain say go!»), o convincerle a risparmiare il cibo sempre più carente («Don’t waste bread! Save two slices every day and defeat the ’U’ boat», o «The Kitchen is the key to Victory. Eat less bread»), e a coltivare gli orti di guerra raccomandando loro di non gettare le bucce di patata per farne così dei «deliziosi» pudding.
L’icona di Leete incarna bene questo processo di mercificazione totale della società; ma vi è un’altra immagine, forse meno conosciuta del poster di Kitchener, ancor più efficace nel mostrare l’essenza della «modernità». Il poster della Wiener Kommerzial Bank per il settimo credito di guerra austriaco, con una prospettiva accentuata che si perde all’infinito, disegna le masse oscure e quasi senza volto dei «soldati senza qualità» che si fanno scudo dal fuoco nemico con delle enormi monete d’oro. Esso concentra senza ambiguità la correlazione tra guerra totale e interessi finanziari e industriali, un unicum che coinvolge un intero apparato sociale, compresa la stampa, il cinema, la pubblicità e la propaganda. Quel che difendono i soldati di sua maestà l’imperatore Francesco Giuseppe (ma non ne vengono sicuramente difesi) è il denaro. Più chiaro di così…

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